Estetica della traccia
Esponendo a Pistoia, presso la prestigiosa Fondazione Marino Marini, le sue opere più recenti, Gianni Antenucci propone una tesa riflessione sul divenire, analizzato a partire dal suo contrario: immagini ibernate, bloccate in una inafferrabile definizione visiva.
Dopo gli esordi, legati a un’eredità, di metodo e di gusto, prettamente toscana, e giocata in particolare su quella linea tesa tra non figurazione, dilatazioni figurative e influenze informali che si dipanò, con epicentro fiorentino, dai tardi Cinquanta del ‘900, l’artista è pervenuto a una serie peculiarissima di lavori. Dall’inizio dei Dieci, infatti, costruisce complesse scatole spaziali – sorta di pittura messa in scena in una plurivoca scelta pittoscultorea. L’uso del plexiglass satinato a mano vela la visione della pittura sottostante, talvolta allusiva ad organi umani (cuori soprattutto) talvolta a forme naturali e fitomorfe, a piante sacre. Come sigillata da un ghiaccio che si presuppone perenne, la cosa ibernata si preserva e conserva, intatta dai cicli vitali e distruttivi della natura; come annebbiata dal filtro di una velatura solidificata e non del tutto trasparente, la sua immagine si sfoca, perde i confini, lasciando baluginare i colori solo a tratti.
Implicita, evidentemente, una posizione polemica o almeno fortemente scettica nei confronti della storia, che pare precludere, in un tentativo faticoso e vano, l’effettiva conoscenza del passato. Rimane, ancora più forte, la sensazione che il problema della storia sia in qualche misura eluso, perché sentito inessenziale. La proposizione di Antenucci non si pone contro la storia, ma la oltrepassa, in una sintonia avveduta con un passato ancestrale e archeologico, che ha anche molto a che fare con il mestiere del paleontologo.
Ne deriva un’estetica della traccia, che isola (e organizza, senza aver l’aria di farlo) disiecta membra di un’era remotissima, che pure hanno ancora in sé qualcosa di palpitante, vivo. Ogni singolo elemento, isolato (e decantato), forse per millenni, rivela un significato visivo profondo, facendosi anche portatore di una concentrata chiarificazione, nel solco di quella ecologia visiva proposta, ad esempio, alcuni anni fa, in ambito fotografico, da Alessandro Alimonti . Se per la fotografia è stato fondante l’influsso surrealista, corroborato dalle scelte interpretative del metodo operativo kraussiano, qui si potrà citare, più che altro come nume tutelare, il Bataille tardo di Lascaux. A questo suo lascito credo si possa accostare una linea di riflessione che, a mio avviso, da qualche tempo si sta sceverando, (col)lateralmente, dalla grande e feconda messe di operazioni artistiche sulla storia, con la quale ha trionfato e si è conclusa la stagione del postconcettuale. Tale linea, della quale mi sento corresponsabile, si sta esercitando, anche teoricamente, sull’arte e i suoi diritti entro la storia più che sull’arte e i suoi doveri verso quella, sviluppandosi, a mò di controcanto, come pensiero critico sull’umanità, lungo e al di là della storia. Alla luce di queste considerazioni, come vado scrivendo ormai da anni, l’arte si qualifica come fil rouge antropologico (quasi unico) di una condizione umana per il resto così mutata dalle prime testimonianze note fino ad oggi. Prima di inventare la storia, prima di sentire il bisogno di immaginare e costruire la casa, prima di imparare a scrivere le donne e gli uomini di epoche lontanissime disegnavano, sentivano e soddisfacevano il bisogno di fare arte.
Frozen vision
Elementi ai quali mi pare sia consentanea l’operazione di Antenucci, di pungente specificità nel dibattito generale. Gianni, partito da una puntuale ispirazione ai ghiacciai e alle tracce artistiche preistoriche, ne ha tratto materia di sapienza linguistica e poetica, intessendo un originale discorso sulla visione - peraltro, come ha sottolineato Marcello Carriero, “evitando l’abbaglio, l’effetto eclatante” .
Raffreddata enormemente la temperatura, ecco quindi il ghiaccio come metafora e come materia (sotto le mentite spoglie del plexiglass). Nelle opere resta insita la possibilità interpretativa di un mistero, anche religioso: il ghiaccio sarà allora un velo, tema sacro e mitico di antichissima risonanza oppure, come già proposto da Giuseppe Billi , un sudario, comunque un’allusione ad una dimensione trascendente. A tali allusioni si assomma un possibile immaginario fabulistico - la bara di cristallo delle favole nordiche, simbolo della sospensione dell’età adulta, ambientata invariabilmente nel bosco del presociale, sede di un tempo pre-storico, incantato. Nei giorni in cui il tempo ha perso la sua linearità - frammentato il ciclo delle stagioni e polverizzata ogni ritualità collettiva o sociale – l’artista analizza il tema in controluce, predicando un tempo impossibile e fermo, lentissimo, come quello geologico, dai movimenti indistinguibili, o forse il tempo dell’essere, fisso e infinito.
Frozen vision, dunque: sotto il ghiaccio, che opacizza con il suo spessore, e con il peso delle epoche trascorse, la nitidezza dell’immagine, l’immagine tuttavia esiste ancora. E resiste, nella sua interezza sostanziale, di cui la labilità della visione è più un corollario che una contraddizione.
La visione labile e velata è stata d’altra parte l’ultima parola di una delle più grandi voci dell’arte contemporanea, Sigmar Polke. L’artista tedesco la scomponeva, tra l’altro, sotto un filtro di vetro canneté – nel Padiglione centrale della Biennale veneziana del 2011, di poco postumo - o la velava di tulle o rete – nella Biennale curata da Robert Storr, in opere poi riproposte nello stesso 2011 nei severi spazi di Punta della Dogana.
Demistificando troppo facili e consolatorie visioni, conclamate nella loro chiarezza, il lavoro di Gianni Antenucci esplicita e sciorina, quindi, nella disposizione celatamente intellettuale di un discorso teorico ed estetico, la visione e i suoi processi.
Con coraggio, l’artista pratese ne denuncia la poesia, sancendone la fragilità, sedotto ancora dalla indefinita imprendibile ambiguità dell’immagine.
L’ermeneutica del vedere, di cui ha scritto Mariano Apa , che l’opera enuncia senza narrare, conosce però un esito incerto. Resta un dubbio, un enigma (Enigma in bighiaccio, 2014, fig. ).
La felicità traluce.
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