Gianni Antenucci si contrassegna, subito, come un artista del terzo millennio della ripresa spirituale.
Infatti, se come insiste la critica più accreditata nella lettura del tempo, finora l’arte (almeno quella dei successi critico-commerciali) si è caratterizzata da autoreferenzialità al ribasso, da materialismo, da esistenzialismo nichilista e senza rimandi. Antenucci si rivela immediatamente, attraverso opere che sono la “protesi” o il “sudario” di una spiritualità immanente e trascendente. C’è, è qui. E trasuda di un respiro divino.
Ecco, anche la forma che sublima quasi e in senso strutturale l’ossimoro soprannaturale: la forza nella debolezza, il grido nel silenzio, la luce nel pallido chiarore dell’alba.
E nel secondo scenario (intendiamo i due piani paralleli, dove il primo è la tinta di pura velatura in plexiglass) “tra-luce” un cuore. Non è solo il cuore del “cuore” ma è il cuore come emergenza e profondità. Cioè: ciò che fa vibrare di ininterrotta palpitazione il senso della vita e ciò che si introduce come squarcio e come “grotta” di pensieri profondi e di delicati sentimenti.
Nelle opere di Gianni Antenucci (e non basta definirli: quadri, ma di più: sono un complesso di materia appena percepibile “in actio” in “performance”) l’artista, oltreché divinatore e inventore è come un “sacro” profeta che si è ispirato “sotto dettatura”.
Accostando poi l’essenza dell’uomo e dell’artista – che è un necessario connubio o “sinolo” bivalente, intrigato e intrigante – si ha la percezione, e di più: la rilevazione che l’arte è per lui una preghiera, una melodia biblica (ritmata), il bisogno o l’esigenza di un segno “astrale”, in un doppio senso: nel senso che si estrae dalle derive di inutili cataste del mondo; e nel senso che l’uomo, con l’arte aspira direttamente alla “bellezza” di Dio.
Quella bellezza – per ripetere ancora il famoso detto di Dostoevskij, e qui in modo sentimentalmente adeguato – quella bellezza che salverà il mondo.
Giuseppe Billi
Settembre 2013
Curatore Arte Sacra Contemporanea
C.E.I. – Roma -
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