Momento fondamentale della formazione culturale di artisti e nobiluomini europei dal Seicento all’Ottocento, il Grand Tour contribuisce allo sviluppo del genere pittorico del paesaggismo. Roma, Venezia, Pompei, le Alpi, ma anche ponti, strade, resti romani, chiese, le donne con i costumi tipici, la campagna, i laghi e gli scorci urbani, divengono tanti pretesti per realizzare opere sia di piccole dimensioni, abbozzate e schizzate sul posto, su appositi taccuini, sia di ampio respiro, rielaborate in studio su tele di grandi dimensioni. Queste opere avevano il sapore del souvenir ante litteram ed avrebbero ricordato al viaggiatore quanto visto durante il suo lungo viaggio attraverso l’Europa.
È in quest’ottica che ho deciso di aprire il percorso espositivo con due opere concettualmente distanti tra loro, ma che proprio in virtù di ciò attestano quanto sia cambiato il modo di guardare alla città ed al territorio. Se in Appunti di Marino Marini, dal tratto rapido e sicuro, ancora si cerca, nella più tradizionale visione del Grand Tour, di fissare rapidamente sulla carta uno scorcio insolito o una certa architettura per far sì che il suo ricordo accompagni l’esecutore per sempre, lasciando perlopiù prevalere il senso di incompiutezza, nonché la foga e la concitazione del momento, in The Wall, Wrapped Roman Wall, Via Veneto and Villa Borghese, Rome, Italy (1974) Christo e Jeanne-Claude non si limitano a ritrarre i monumenti della Città Eterna, ma ne modificano l’aspetto e la percezione prodotta sulle migliaia di romani e turisti che si sono trovati ad attraversarne i fornici o semplicemente a guardare le antiche mura da lontano. La coppia di artisti, ormai entrati a pieno titolo nell’Olimpo della storia dell’arte, impacchettando con polipropilene tessuto e corda di Dacron una breve porzione delle mura fatte costruire dall’Imperatore Marco Aurelio duemila anni fa, per 40 giorni -tanto è durata l’azione- hanno cambiato il volto di un reperto che, il traffico e la fretta in primis, avevano trasformato in qualcosa di talmente ovvio e visivamente “consumato” da diventare “invisibile”. È bastato del tessuto non tanto per cambiarne banalmente l’aspetto, ma per riportare a nuova vita un pezzo del passato. Per quaranta giorni appena, si potrebbe obiettare, ma la verità è che coloro che hanno la fortuna di esperire l’arte di Christo e Jeanne-Claude, imprimono nella loro coscienza un’impronta indelebile, come gli stessi artisti affermano: «Years after every physical trace has been removed and the materials recycled, original visitors can still see and feel them in their minds when they return to the sites of the artworks.»
Di qui in avanti la mostra entra nel vivo, a proporre una visione moderna dello spazio urbano e rurale, ma anche del viaggio. Cosa vede oggi l’artista/turista che si muove nelle grandi metropoli? Sicuramente, a seconda della sensibilità di ognuno, egli è portato a coglierne aspetti positivi (luogo di divertimenti, modernità, comunicazione, velocità, multirazzialità, scambio culturale, etc.) o negativi (droga, prostituzione, incomunicabilità, traffico, delinquenza, inquinamento, etc.). Lasciando, come è fondamentale che sia, totale libertà espressiva agli artisti selezionati, ciascuno di essi ha fornito una personale chiave di lettura del territorio, nell’ottica del viaggio.
Per Silvio Natali la città è un luogo pericoloso. In Corse clandestine (2004), opera già presentata in occasione della mostra “Homo Velocipede”, presso il Museo delle Auto della Polizia di Stato , le vetture sfrecciano davanti ad una moltitudine di persone, che assiste inerme, in un groviglio di segni che tende a farne un tutt’uno con i palazzi retrostanti. E se il tratto, rapido e nervoso, ben lega con l’adrenalina che accompagna la folle corsa, la scelta cromatica basata sulla predominanza del rosa causa una sorta di corto circuito. La “piacevolezza” e la leggerezza cromatica non legano affatto col senso di pericolo insito nell’azione delle tre automobili lanciate a tutta velocità sulle strade cittadine, probabilmente in un’ora di punta e con dei potenziali pedoni che le attraversano. Ciò costringe lo spettatore a compiere, in un momento successivo al primo e superficiale sguardo, un ulteriore passo critico ed a colmare quel gap tra accattivante scelta cromatica e reale significato dell’azione, come a dire che ciò che appare bello, in realtà, nasconde un grande pericolo.
Nelle tre opere di Brigitta Rossetti non vi è più alcun senso di pericolo imminente; tutto è ormai accaduto. Allo stesso tempo viene meno l’intento narrativo, che certamente acquieterebbe quel senso di drammaticità che costituisce il punto di forza dei tre lavori esposti. Decadence part 2, End of decadence e Shadow of decadence alludono a quelle che nell’immaginario collettivo sono le principali piaghe della società contemporanea, ovvero droga e alcool, ma anche indifferenza ed incomunicabilità. A volte si è più soli in una brulicante metropoli che in uno sconfinato campo di grano, ed il silenzio diventa più prorompente di un urlo. Nelle opere della Rossetti la figura umana non compare, ma nonostante ciò è l’unica vera perdente protagonista possibile.
Finora non si è fatto cenno alla prostituzione, né al concetto di turismo sessuale. Quanto siamo distanti da quel viaggio di cultura e di raffinata crescita intellettuale! Fausto Ferri in Banconota per abuso sessuale su donna (2006) non solo sostituisce l’effige di Alexander Hamilton -nella versione originale in veste di Primo Segretario al Tesoro degli Stati Uniti- con quella di una sensuale figura femminile, ma ne riempie l’intera superficie, sebbene rispettandone l’ordine formale e la specularità, con volti e mezzibusti di belle ragazze sia nude che vestite, ma in posa come modelle, cui si aggiungono volti sporchi ed impauriti di bambine. Al colore verde tipico del dollaro, inoltre, Ferri preferisce il suo negativo fotografico, come a voler simboleggiare “l’altra faccia” del denaro, quella più sporca. Lo sfruttamento sessuale rimane il soggetto principale delle altre due opere selezionate per questa mostra: Macelleria (Sulla piaga della prostituzione) (2008) e la coeva ed altrettanto espressiva Il puttaniere. La prima installazione vede un uomo allontanarsi da una parete in cui seni e labbra di diverse “misure”, appesi in bella vista come fossero dei prosciutti o parti macellate di bovino, sono a disposizione di chiunque si presenti con un po’ di denaro sonante. Accennato da una silhouette in ferro, perché vuoto e privo di qualsivoglia umanità, l’uomo lascia dietro di sé una scia di banconote e ne tiene altre ben strette nella mano sinistra. Sempre meno in grado di costruire rapporti solidi con l’altro sesso -ma d’altro canto come potrebbe, inconsistente com’è?-, l’uomo preferisce acquistare ciò che non potrebbe ottenere in alcun altro modo, pagando “a peso”. Lo stesso Il puttaniere, fatta la sua scelta d’acquisto, carica in spalla l’oggetto del desiderio e si allontana voltandoci noncurante le spalle e calpestando un tappeto di denaro. «Amor vincit omnia», scrivevano i latini in un tempo ormai passato…
Se si parla di Grand Tour è davvero difficile non citare Johann Wolfgang Goethe ed il suo Viaggio in Italia (1829), niente affatto una guida ma piuttosto un diario ricco di spunti e di riflessioni sulla nostra arte, la cultura e la letteratura. Partito nel 1786 egli visitò, tra le altre città, Firenze, Verona, Napoli e Roma. Davanti al capolavoro michelangiolesco della Cappella Sistina si annoiò talmente tanto che si addormentò; eppure la Città Eterna lo ammaliava a tal punto da farlo sentire “a casa”, come se non fosse mai vissuto da alcuna altra parte («…finalmente in questa Capitale del mondo!», scrisse appena entrato in città). Sembra anche, ma difficile risalire alla veridicità di tale affermazione, che fu lui a coniare il detto «Vedi Napoli, e poi muori». Ma cosa c’entra tutto ciò con la nostra mostra? In Die @ Fast (2008) Norbert Schmitt, artista e scrittore che con Goethe ha in comune anche le origini tedesche, in un turbinio di segni pittorici che contraddistingue tutta la sua produzione pittorica e sulla quale vanno ad innestarsi, più che parole isolate, come farebbe un writer, brevi frasi apparentemente slegate tra loro, la scritta che dà il titolo all’opera si intreccia con una seconda frase. Ne deriva l’assunto «Seeing Rome & Die», rivisitazione moderna del detto goethiano operata, secoli più tardi, da un suo connazionale.
Il gusto del viaggio, del guardare per la prima volta ad una realtà diversa da quella in cui si è abituati a vivere, la curiosità e lo stupore che ne consegue, sono gli ingredienti che accomunano le tre opere di Luca Cossu selezionate. Sostituito il taccuino con la macchina fotografica, l’intento non cambia: riportare a casa un’immagine che ci ricordi quel luogo, quella gente, quelle strane abitudini. Purificazione (2009), nella sua semplicità ed eloquenza, testimonia un momento topico della vita indiana, ovvero il lavare il corpo per mondare l’anima. In alcun altro luogo del pianeta la povertà viene vissuta con tanta dignità. La semplicità di questo popolo è disarmante, ed il divario con la nostra società è abissale. A tal proposito uno spunto di riflessione, più intimo che artistico e che perciò lascio alla personale sensibilità dei singoli visitatori della mostra, potrebbe riguardare il confronto tra la già citata Corse clandestine e Traffico (2009). Impensabile auspicare per il Vecchio Continente un ritorno alla sedicente Età dell’Oro, col suo idilliaco rapporto tra Uomo e natura, come pure sarebbe errato aspirare al modello indiano, che per chi lo vive nella sua quotidianità ha davvero ben poco di sublime, ma ripensare ad una società più vivibile non potrebbe che aiutarci a ritrovare i giusti valori ed equilibrio.
Equilibrio è anche il termine che meglio di ogni altro accompagna la pittura di Alfredo Di Bacco, raffinato artista che con solido rigore formale fissa sulla tela uno scorcio di campagna in cui non si ha traccia di architetture, ma le figure vivono immerse nella Natura. Da Estate (2006-7) promana un senso di attesa e di straniamento, laddove le figure non solo non comunicano tra loro, ma quasi sembrano ignorarsi. Non possiamo intuire il sesso del più giovane dei personaggi, ma se fosse una bambina potremmo leggere l’opera come una metafora delle tre età della donna, ed in questo caso le tre figure si ridurrebbero ad una sola, ritratta nei diversi momenti della sua esistenza. Abbiamo già parlato dell’acqua come evidente elemento di purificazione. Ma anche di fertilità, aggiungo. Quindi la giovane donna, l’unica in condizione fertile, siede sul letto di quello che sembra essere un fiume e, sguardo fisso davanti a sé, rimane immobile. Al di là di questa chiave di lettura più squisitamente iconologica, l’opera si riallaccia a tutta una serie di composizioni che, soprattutto nel Sette ed Ottocento, erano di gran moda tra i collezionisti di tutta Europa. Ed essere ritratti in un momento di riposo, come fece Johann Heinrich Wilhelm Tischbein nel celeberrimo Goethe nella campagna romana (1787), era una conditio sine qua non per l’aristocrazia europea, che non disdegnava neppure di posare in improbabili vesti di pastori e pastorelle.
Quanto sia cambiato il rapporto tra Uomo e Natura da allora è ben espresso nell’installazione di Gennaro Barci, dal titolo The Nature’s Drama (2010), pensata appositamente per gli spazi del Castello di Grobnik. Posta su una base che, oltre a delimitarla -e quindi a bloccarne lo sviluppo-, si configura come un palcoscenico su cui va in scena “il” dramma per eccellenza. Solo due gli attori: la Natura, ovvero la parte colorata, ricca di sfumature; la società costruita dall’uomo, ovvero la parte verde, più spessa e pesante della prima e che tende ad inglobarla. La Natura risulta letteralmente distrutta, fatta a pezzi dalla società che, simbolicamente, ha preso il suo posto -tanto che il colore che la contraddistingue è ironicamente il verde, appunto-, sostituendosi ad essa ma senza riuscire in realtà a garantirsi la sua incredibile varietà cromatica. L’opera di Barci parte dal presupposto che l’Uomo contemporaneo ha talmente esasperato la Natura, violentandola, distruggendola, alterandola, manipolandola e piegandola a suo continuo e bizzarro piacimento, che è anche venuto meno l’ovvio rapporto di filiazione, o meglio, si è capovolto. Non è più l’Uomo ad essere figlio della Natura, ma è quest’ultima a divenire figlia dell’Uomo ed a dipendere totalmente da lui.
Nelle opere di Inge Mair, di contro, ritroviamo tutto il rigoglio della Natura. Da moderna viaggiatrice l’artista austriaca, non distante dalla visione di goethiana memoria, fissa sulla tela, come egli faceva sulla carta, quegli scorci che la colpiscono per la loro bellezza inusuale. Quella di Lipari (2009) è una prospettiva dall’acqua. Qualsiasi turista, giungendo sulle Isole Eolie, non esiterebbe a scattare una fotografia da questo stesso punto di vista, in cui il mare la fa da padrone raddoppiando, col loro riflesso, le facciate multicolori dei palazzi che si affacciano sulla banchina. In Cherry blossom (2008) e Wald (2009) cambia la meta del viaggio, ma la freschezza e la semplicità delle immagini rimane invariata. Un ciliegio nel massimo del rigoglio o un bosco ricco di odori, chiaroscuro e suggestioni, seppur a distanza di anni, continueranno a far riaffiorare alla memoria tutta una serie di ricordi e di emozioni.
L’opera di Mirella Orlandini si inserisce perfettamente in questa linea, tanto che Tramonto a Grado conserva appieno quella immediatezza che richiama alla mente le opere impressioniste eseguite en plein air. Anche la dimensione ridotta, indispensabile per consentirne facilmente il trasporto, ne riflette appieno lo stile. Una tela piccola, quindi, e di grande fascino, in cui il ricordo si mescola al colore per dar vita ad un’immagine in grado di ispirare, anche in chi guarda pur senza aver mai visitato quel luogo, un evidente sentimento di libertà, nonché di incondizionato amore e rispetto per la Natura.
Sovente non soltanto il tempo può alterare i nostri ricordi lasciandoci negli occhi della mente un’immagine che non corrisponde più alla realtà, ma l’emozione stessa provata in quel momento passato può distorcere l’immagine di partenza. Nell’opera di Angela Policastro, Il mulino di Silvolde, Olanda (2010), né l’antica struttura né il paesaggio circostante riflettono una visione realistica, tutt’altro. Entrambi vengono alterati e distorti da quell’insieme di emozione, stupore, divertimento e senso di libertà che quel viaggio continuerà ad evocare all’artista. Concettualmente non siamo molto distanti dal simbolismo de La visione dopo il sermone (1888) di Paul Gauguin, in cui i colori violenti ed irreali sono frutto della rielaborazione mentale operata dai fedeli all’ascolto delle parole animate scelte dal reverendo per narrare l’episodio biblico della lotta di Giacobbe con l’angelo.
Anche nell’opera di Alessandra Ferretti prevale una rielaborazione mentale, eseguita certamente a posteriori con l’intento di racchiudere in un unico lavoro l’essenza di una terra, con tutti i suoi luoghi comuni e le impressioni personali che ne sono scaturite. Per questo motivo in Norvegia (2010) figurazione ed astrazione vanno a braccetto e si compenetrano l’un l’altra. Facile, anzi scontata, la presenza del troll sulla destra, creatura dei boschi, timida, dolce ed amante della pace e della tranquillità, ma che se pungolata troppo potrebbe anche giocare brutti scherzi, come pure quella della silhouette del drakkar, la nave che i vichinghi utilizzavano nel Medioevo, a chiudere la composizione sulla sinistra. Al centro dell’opera, invece, la parte ottenuta mediante la tecnica della spugnatura evoca gli sterminati boschi di abeti innevati, cui si contrappongono, in alto, delle tessere di marmo, simboli dei lunghissimi ghiaccioli visti pendere dai tetti delle abitazioni, ma anche dei fiordi frastagliati che, dall’aereo, hanno riempito gli occhi dell’artista.
Le opere di Nadia Larosa non lasciano intuire il luogo che le ha ispirate -d’altro canto i titoli, Marina e Confine, aiutano ben poco in questo senso-, piuttosto fanno pensare a quelli che a me piace definire “paesaggi dell’anima”. In entrambe la superficie pittorica si fa talmente spessa che simbolicamente la loro presenza è ancora più tangibile. Gravano con un loro peso specifico sulla coscienza di chi le ammira, inoltre il loro spessore materico quasi spinge chi guarda a cercare un contatto tangibile. Confine è certamente la più concettuale delle due, nel dividere a metà la superficie stabilendo un aldiquà ed un inevitabile aldilà, in un’apparente calma piatta che sempre precede o segue una tempesta.
Nell’intera produzione di Fabio Usvardi, indipendentemente dal soggetto, il colore è l’assoluto protagonista. Fondamentale sottolineare, prima di qualsiasi lettura formale delle opere selezionate per questa mostra, che questo viene steso sulla tela con l’esclusivo utilizzo delle mani. Non c’è un medium, come il pennello e la spatola, ad interporsi tra la tela e l’artista, solo il colore, che attraverso l’azione diretta, la gestualità, determina le forme e la struttura della composizione. Ne deriva una pittura espressiva, carica di forza, ma che sa anche essere incredibilmente leggera e delicata, come dimostra il confronto tra Landscape n. 2 (2009) ed il coevo Landscape n. 3. Il tramonto che sembra essere all’origine del primo quadro è carico di rosso, animato da un fuoco che ben si addice al gesto che, attraversando la tela, le trasferisce vita. Il secondo, invece, è silente e delicato come una giornata di neve, che lascia dietro di sé un’atmosfera ovattata. A differenza di quanto accade nel primo, in cui si percepisce di essere immersi nel colore, qui si ha la sensazione di ammirare il paesaggio attraverso il finestrino di un’automobile.
Guardando La città ideale (2010) di Lorella Lion, nella sua duplice versione, si intuisce la meticolosa ricerca di materiali, dalla carta alla foglia d’oro ai colori -spesso the e caffè-, che ne ha accompagnato la gestazione. Il restauro di affreschi antichi, attività cui la Lion si dedica in parallelo, l’ha portata nel tempo ad acuire l’attenzione verso i dettagli, che solo un accorto scrutare può riportare alla bellezza iniziale, falsati se non interamente occultati da pellicole di pittura e stratificazioni di polveri. Le opere selezionate per la mostra, pertanto, oltre ad essere impreziosite da guizzi d’oro, mostrano uno skyline che emerge etereo tra le stratificazioni di materia, che torna ad essere guardato per la prima volta e con una sensibilità d’animo sempre diversa.
Quella proposta da Annamaria Biagini, invece, è una città fantastica. Per quanto ci sforziamo, a stento riusciamo a riconoscere in Città fiorite 1 (2004) qualche elemento vagamente familiare. La straordinaria immaginazione dell’artista livornese ci catapulta, così, in un mondo coloratissimo, leggero, dove tutto galleggia in uno spazio regolato da strane leggi fisiche. Siamo lontani persino dalle terre descritte, con dovizia di particolari, da grandi romanzieri o da scrittori per bambini. È certamente un luogo del futuro, in cui la stessa Natura diviene meccanica, ma in cui dell’uomo non vi è traccia. Siamo di fronte alla grande vendetta della Natura sul genere umano?
A questo punto è necessario tornare con i piedi ben saldi sulla terra, e non c’è nulla che possa farlo meglio delle due tele di Gian Luca Galavotti qui esposte. Con Treviolo e San Giovanni in Persiceto, entrambe realizzate nel 2010, egli ci riporta alla nostra realtà. Se nel passato l’uomo del Grand Tour si soffermava su bellissimi particolari architettonici, un moderno viaggiatore guarda anche ad una pietra miliare e ai segnali stradali come ad elementi imprescindibili, in grado di guidarlo ed accompagnarlo fino alla meta. Sarà meno romantico dello scorcio di Marini, ma certamente più realistico. C’è da dire, però, che la libertà espressiva di cui gode la nostra epoca è la cosa più bella che ci contraddistingue dal passato e che ci permette di elevare qualsiasi oggetto a soggetto degno di essere ritratto. Questa è la più grande conquista artistica del Novecento.
Rimaniamo nel concettuale per presentare l’opera di Federico Anselmi. Dalla prima volta che ho visto i suoi lavori sono rimasta affascinata dall’idea di un supporto tanto “navigato”, nel senso più letterale del termine. Utilizzando veri e propri pezzi di vela, la pittura va ad aggiungersi, come una stratificazione, a qualcosa che ha già una sua storia impressa ed imbrigliata nella trama. Ma questo, certo, non sarebbe sufficiente di per sé a garantirne la validità artistica. Se ho scelto di inserire Tragagià (2010) in questa mostra è perché riconosco all’opera una straordinaria capacità evocativa, perché il colore che la ricopre lascia immaginare non solo le sfumature del mare ma, più di ogni altra cosa, il rumore dell’infrangersi delle onde sullo scafo. È lirismo puro.
La memoria è anche la chiave di lettura che, come un fil rouge, accompagna l’intera produzione di Guadalupe Luceño. Sottolineo il fatto che l’artista spagnola è stata la prima ad essere selezionata e che le sue opere, sebbene di primo acchito possano sembrare un azzardo, in realtà nell’economia della mostra accompagnano il visitatore verso lidi altrimenti non sviluppati. Tutte appartenenti alla serie Memoria del templo (2009), le tre tavole partono dal presupposto che la città (il termine templo diviene quindi sinonimo di ciudad), oltre a mantenere memoria e conoscenza del passato, non sia altro che una struttura rigidamente e perfettamente gerarchizzata. Impossibile accedere agli alti vertici (suoi, della conoscenza e del potere, che si corrispondono) se non si è parte integrante di un ristrettissimo numero di individui. In una realtà siffatta che solo apparentemente concede libertà ai suoi abitanti, tutto si riduce ad una gabbia. La scansione geometrica allude anche a questo. Le tante linee verticali che si susseguono, oltre ad evocare un diagramma -che peraltro non giunge mai all’apice secondo quanto detto pocanzi-, ricordano le sbarre di una prigione, ma anche il guardare attraverso il burka. In un assunto finale tempio, città, prigione e burka si equivalgono in quanto, ciascuno a modo loro, limitano o addirittura in certi casi impediscono la conoscenza e portano all’isolamento.
Il tema dell’incomunicabilità e della solitudine all’interno delle grandi metropoli è alla base della serie Climax (2008-9) di Pier Paolo Bandini, costituita da venti tavole e di cui in mostra è presentata la n. 17. Uomini e donne nudi, dapprima seduti e poi in piedi, in una tensione interiore che si concretizza nell’elevare corpo e braccia verso l’alto, alla ricerca spasmodica di uno spazio, tanto fisico quanto mentale, autonomo, in cui riconoscere ed affermare la propria identità. Il chiaroscuro lascia il posto al colore e, nell’opera selezionata, le singole figure risultano collegate tra loro da rette: l’incomunicabilità e la solitudine sono vinte, ma è evidente che l’antidoto non va cercato al nostro esterno.
Cristina Rodriguez, col suo The Polar Bear and his Cub visit London as a cry for help (2009) rende omaggio a David Attenborough, considerato uno dei pionieri dei documentari naturalisti che lo scorso anno, per ricordare agli inglesi -e non solo- che il mondo è in pericolo e che gli equilibri degli ecosistemi terrestri sono drammaticamente a rischio a causa del surriscaldamento globale, ha collocato la scultura a grandezza naturale di un orso e del suo piccolo sulle acque del Tamigi. La Rodriguez, con lo stile che le è proprio, semplice, di chiara lettura e che per questo ha la rara capacità di parlare a tutti, grandi e piccoli, colti ed analfabeti, ha accolto quel grido di aiuto nella speranza di contribuire al tam tam, affinché le nostre città caotiche, inquinate e rumorose, diventino più a misura d’uomo. Il fatto che molto probabilmente tutti noi moriremo prima del pianeta non ci autorizza certo a distruggerlo.
Alla fine di questo percorso mi piace collocare le opere di GUIKNI, che con Bailando e Batic Maya racconta di terre a noi lontane, ancestrali, in cui il mito si compenetra con il quotidiano. Messicana di nascita ma italiana di adozione, l’artista semplicemente racconta le sue origini, muovendo nello spettatore europeo quella curiosità per ciò che appare molto distante dalla sua realtà e dalle sue tradizioni. Esattamente come accadeva durante il Grand Tour, quando i viaggiatori si lasciavano ammaliare ad ogni passo, con gli occhi innocenti di un bambino che si affaccia alla vita e che al contempo ha sete di imparare cose nuove.
La mostra si chiude con due immagini topiche del viaggio, la prima delle quali è Viaggiare su due ruote (2009) di Luca Cossu, in cui l’uomo solitario, alla guida di una Vespa, la terra deserta ed arida tutt’attorno, si sente libero come chi cavalca il mondo. Ultima, ma proprio perché una sorta di manifesto del viaggio, la delicatissima Il cammino riprende (2010) di Sebastiano Longaretti. Ho imparato che la cosa più importante non è raggiungere la meta, ma il lungo cammino che la precede. Per poi scoprire che il vero viaggio da intraprendere è quello dentro noi stessi, passo dopo passo.
Adelinda Allegretti
Como, 31 maggio 2010
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