Un lirismo esasperato, emerge da questi quadri realizzati in bianco e nero, tonalità in grado di sottolineare il dramma umano che dalla tela arriva fino al fruitore che, si sente investito da questa denuncia in cui è uno spettatore silente di un’umanità oramai priva di forza e svuotata nell’anima e nel corpo alla quale lui stesso appartiene, e che grida da ogni epoca.
Sono tele i cui tagli fotografici, i cui colori, sono sintomatici dell’esigenza di custodire la memoria di un passato che tanto tale non è, ma che si ripete in forme e contesti diversi. Tutte sono accumunate da un’unica grande certezza: il cambiamento è necessario, e crederci è speranza.
La speranza è il sentimento che traspare in “Nuova vita”, emblema di un’umanità che potrebbe ripartire dagli occhi di una madre innamorata e devota dinnanzi al miracolo che ha messo al mondo, un bambino ancora incosciente di quello che lo circonda, di quel mondo che inevitabilmente lo travolgerà nella sua decadenza più totale, quella che non risparmia nessuna nazione, nessun popolo, nessuna classe sociale.
Un mondo in cui per sopravvivere è necessario indossare una “Maschera quotidiana” per chiudere gli occhi di fronte agli orrori, perché l’umanità vede ma fa orecchie da mercante e non tende la mano al prossimo, ma la tiene stretta al suo corpo, fingendosi interessata, mentre invece vive solo sul più grande palcoscenico teatrale di tutti i tempi.
Un mondo che nonostante l’incalzare del “Tempo”, magistralmente rappresentato come una creatura anziana, stanca ma dallo sguardo vivo di chi vuole attendere e vedere fino a che punto si arriverà, ripete gli stessi errori del passato.
Come un errore è la guerra, madre di tutti i mali, protagonista principale di “Incontro al destino”, quadro chiave e attualissimo, di una gioventù chiamata a combattere in nome di un amor patriae che non guarda in faccia a nessuno, che chiede e non da niente in cambio e che ringrazia ricordando il sacrificio di un’intera generazione con un milite ignoto che a nulla può valere di fronte alle milioni di vite spezzate. Quelle dei 9 milioni di soldati che morirono in nome della Grande Guerra, e quelle dei circa 6 milioni di civili che dalla guerra cercavano riparo e rifugio.
Ma la bramosità di ricchezza mandante del primo conflitto mondiale fu anche la causa del ben più tremendo secondo conflitto, quello in cui venne preso di mira un gruppo etnico, costretto a subire soprusi a partire dal 1933 e poi costretto a morire in campi di sterminio dove era annullata qualsiasi libertà.
In questi campi l’uomo, sempre se di uomo si può parlare, ha condannato il suo simile all’annullamento della personalità, l’ha condannato ad essere una semplice macchina produttiva etichettata con un numero seriale e sostituito al primo “malfunzionamento”. Questi temi hanno ispirato quadri come “Ultimo istante”, dove quello che resta non è che un pigiama a righe e un volto sconosciuto che forse non sarà pianto da nessuno. Come niente è quello che resta allo scheletrico protagonista di “Nelle mani nulla”, vuoto ormai anche nei suoi gesti e nel suo sguardo perso. Perché il nazismo è stato anche questo: annullamento dell’identità, e questo annullamento è la chiave di lettura di “Chi sono”, quadro struggente che mette il fruitore di fronte alla colpa di aver fatto troppo poco, perché non ha fermato l’atrocità nemmeno quando era spettatore di quanti partivano alla volta dei campi di sterminio, come il rassegnato uomo che compare in “Treblinka”, campo in cui sa che troverà probabilmente la morte.
Ma la fine della guerra ha davvero messo fine all’orrore? L’uomo ha davvero imparato ad ascoltare il prossimo e a rispettarlo nella sua diversità culturale, ideologica e sociale? La risposta è semplice, basta guardare “Povertà”, “Quale futuro”, per leggere nel volto dei più giovani la rassegnazione di una condizione che non sembra lasciare uno spiraglio di luce, la speranza in una redenzione universale che faccia cadere la maschera di perbenismo e di omertà che in molti indossano.
Perché l’omertà diventa il male del secolo e fa chiudere gli occhi di fronti a due tipi di morti: la morte di una civiltà, quale quella africana incarnata dal pianto di un bambino in “Lacrime nere”, e la morte di un popolo, quale quello napoletano in “Giancarlo Siani”, vittima della camorra nel 1985.
Il mondo non ha imparato nulla sembra ammonirci il Cristo velato in “Dormi”, in cui la divinità ormai stanca, oltraggiata in tutto, distrutta, preferisce chiudere gli occhi e credere che sia solo un brutto sogno.
Questo universo di sentimenti contrastanti, odio e amore, speranza e rassegnazione,- a mio modesto avviso- emerge da queste opere esposte da Nicholas Tolosa, artista napoletano, classe 1981, che dedica da sempre la sua produzione artistica alla collettività come lui stesso ha affermato nell’intervista rilasciata al NAM il 31 maggio 2015. Consapevole del fatto che la lotta alla sopraffazione tra gli uomini è una triste, dolorosa e inestirpabile piaga della nostra società, l’artista ha deciso nel corso degli anni di dare voce a chi non ce l’ha, a quelle che lui definisce le “sue periferie umane”, e non è sbagliato il possessivo in questa circostanza, perché Tolosa riesce a rendere propria l’esperienza umana anche più terribile, a immergersi al suo interno ed uscirne provato ma capace di comunicarlo attraverso le sue tele arrivando a vibrare le corde più intime dell’animo umano, lasciando nel fruitore una grande emozione.
La Mostra, resterà aperta fino al 17 Giugno su appuntamento (telefonando al 3773041657).
e-mail: nicholastolosa@tiscali.it
sito web: http://nicholastolosa.jimdo.com
facebook: https://www.facebook.com/TolosaNicholas
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