ITALO TURRI: PROSPETTIVE SOMMERSE
Mostre, Frosinone, 30 April 2010
ITALO TURRI E IL FARE PITTURA
di Rocco Zani

In uno scritto di Luigi Tallarico del 1999, gelosamente custodito e dato alle stampe solo lo scorso ottobre, lo storico di Crotone ebbe a definire il pittore Vittorio Miele una sorta di “artista-sismografo” le cui “vicende vengono continuamente agitate nella forma-colore e finanche drammaticamente presagite come anticipazioni dell’immediato futuro”.
Si rimarcava, in quel modo, una condizione di “preavviso” tipica di taluni artisti che più di altri hanno con l’incombente un rapporto vivo eppure mimetico, quasi ne avvertissero – per sensibilità o carattere, per esercizio o per frenesia - finanche il soffio, l’alito che ne alimenta il divenire.
Mi piacerebbe che la stessa dimensione di turbato conflitto accompagnasse la sostanza epica di un artista, Italo Turri, capace negli anni di spinte e incursioni che di fatto sollecitano un’immagine progettualmente tellurica. Non già come accadimento fatale e rocambolesco della sua condizione umana quanto invece della sua intima specificità di narratore. Il “disagio”, manifestato a lungo come personale avversione alle condotte predominanti – potremmo perfino definirlo come “autonoma distinzione” – ha fatto di Italo Turri un personaggio quasi mitizzato proprio per quella “maledizione da urlo” che è stata compagna di viaggio e di soste precarie nelle stazioni del divenire. Tutto ciò ha stornato a lungo lo sguardo – o l’attenzione – da uno scenario meno autentico o veritiero che è quello primitivo e strutturale del “fare pittura” ovvero di rivendicare a pieno diritto un’autenticità artistica capace – essa si -, oltre ogni comportamento, di dare risposta all’oscurità.
Ecco allora che la valenza geologica di Turri pittore è in quella cultura di strada che più di altre ha interferito nella concreta definizione del racconto. Perché più forte è il segnale dell’umanità dolente, senza schermo o pietà; orfana delle essenziali comprensioni, priva di ogni generoso riparo.
Ed è lui a tracciare meticoloso – come un indicatore appassionato - il fiato che spinge dal sottosuolo, lo sconfinamento degli esclusi, i paesaggi dell’assenza, le voci periferiche che non conoscono certezze.
Non è rassicurante la pittura di Italo Turri – in arte Monzon – se ad essa vogliamo attribuire una peculiare dimensione immaginifica ovvero se vogliamo farne, esclusivamente, isola del ripensamento e della tenerezza. Non è rassicurante, certo, perché non è pittura scenica o di integrazione bensì arsa nella evanescenza di uno sguardo rincorso e restituito agli occhi degli altri per semplici misture di segni, per colori stinti; quasi che il grigio e il nero dialogassero con parole misurate, essenziali, mai affabulatorie.
La città, l’agora, la strada raccontano la storia dei messi da parte, una storia fatta di ombre allungate, di scherno, di brezze fastidiose, di tolleranza rara.
Quelli di Turri sono – come scrisse Giuseppe Bonaviri a proposito di questa terra – cieli scuotenti, enormi, sconfinati o degradati in fumi grumosi, privi dei rossori al vespro, spigolosi e acuti come le geometrie che dettano e risarciscono le sequenze del corpo.
In questo paesaggio di prospettive sommerse il girotondo delle anime perse ha l’odore di cenere, quella che il vento d’autunno trascina per siepi e cortili, confonde gli sguardi e scippa le parole.
Italo Turri ne registra i ritmi e ne annota i battiti, quelli appena percettibili del silenzio e dell’angoscia.

Febbraio 2010 Rocco Zani

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