L'arte, interpretazione e cura del reale
Lectures, Parma, 31 January 2009
Percorsi per migliorare la qualità della vita
31 gennaio – 16 maggio 2009
Biblioteca della Reggia di Colorno


Intervento del 31 gennaio 2009
a cura della Dot.sa Silvia Petronici



L’ARTE, INTERPRETAZIONE E CURA DEL REALE

§ 1. La realtà
§ 2. L’interpretazione
§ 3. L’arte
§ 4. La cura

Innanzitutto vi ringrazio per essere venuti a questa prima conferenza che, come ha detto la dott.ssa Barvitius, apre un ciclo di incontri dedicati al tema della qualità della vita e al suo legame con la nostra salute. La prospettiva del mio discorso è una prospettiva filosofica e da questo punto di vista la nozione di salute è ben più ampia dei suoi confini, diciamo “medici” nel senso tradizionale cui siamo abituati. La salute è il risultato di un equilibrio ottenuto tra i molti aspetti della nostra esistenza. Mi preme, infatti, parlare subito di esistenza a proposito della salute e non solo, quindi, di corpo perché questa è la prospettiva nella quale voglio introdurre il tema e la questione dell’arte.


1. la realtà

L’arte ha, come ogni attività umana, una funzione nel complesso mondo della nostra vita e la sua funzione è profondamente legata alla nostra capacità di interpretare la realtà. Leggiamo nel magnifico saggio “L’arte dissente” di Jeanette Winterson

“La terra non è piatta, e non lo è nemmeno la realtà. La realtà è ininterrotta, molteplice, simultanea, complessa, abbondante e in parte invisibile. Solo l’immaginazione può percepirla e rivelare le sue percezioni attraverso l’arte.”

A questo punto direi di fare una breve iniziale digressione, tipica dell’andamento filosofico del discorso, spero che non me ne vogliate, sulla nozione stessa di realtà.
Vorrei soffermare l’attenzione su cosa si intende per realtà visto che poi parleremo del ruolo dell’arte nella sua interpretazione.
Stiamo parlando di questo tavolo, della mia penna, delle sedie su cui sedete? Si e no. Si nel senso che normalmente si considera reale tutto ciò che si può vedere e soprattutto che si può toccare, che è solido, che produce sensazioni fisiche al nostro contatto con esso. No nel senso che decisamente questa nozione di realtà (percettiva) non esaurisce la sua portata. Anche i nostri pensieri sono reali, ci muovono, infatti all’azione, e non lo farebbero se non lo fossero; sono reali ma non si toccano, non possiamo accarezzarli o morderli. Sono reali i nostri sentimenti, le credenze che si fondano su di essi orientano le scelte della nostra vita, perciò sono reali in un senso anche più forte di questo tavolo che sta lì e non ci muove a nulla. Insomma la realtà, come abbiamo letto nel brano tratto dal saggio della Winterson, e come sanno bene gli artisti, è complessa.
Nella realtà che ci sta di fronte e che siamo abituati a dare per scontata, per oggettiva e indipendente dai nostri capricci, c’è di più della solidità di questo tavolo. Ci siamo noi. questo è quanto la filosofia in uno sforzo che inizia con Kant e Hume e giunge fino a oggi, conclude con una certa serenità.
Quando dico “noi” intendo dire la nostra prospettiva, il punto di vista assolutamente personale, parziale (e situato) da cui osserviamo le cose del mondo.

Le cose del mondo, compreso questo tavolo, noi le osserviamo e stabiliamo dopo averle osservate che sono reali ma questa definizione di realtà non può prescindere dal fatto che siamo noi in origine ad aver incontrato quelle cose.
Quindi le cose del mondo, gli oggetti solidi e materiali, divengono reali. Non lo sono fin dall’inizio. Mi spiego: ciò che rende reale qualcosa è la mia interazione con esso, e l’interazione presuppone me. Me che desidero, penso, ho dei bisogni, degli interessi, dei pregiudizi, dei valori, una certa visione del mondo, me che ho mal di pancia, me che speravo di laurearmi più in fretta, me che preferisco le fragole alle banane.

Così reale, dopo ciò che abbiamo detto, non significa più oggettivo ma completamente soggettivo. Il tavolo, nello stesso modo della mia relazione di coppia, dipendono da me. Non mi preesistono. E a questo punto ci assale una certa inquietudine. E la domanda che sorge è: allora se tutta la realtà non è oggettiva e quindi lì disponibile a prescindere dalla mia presenza, allora niente esiste per essere condiviso con gli altri esseri umani?
Insomma se siamo tutti soggettivamente legati alla nostra realtà (che diventa perciò una realtà privata) come facciamo a vivere con gli altri, a capirci, a interagire in modo significativo, a comunicare?
La risposta cui giunge la filosofia è che a garantire questo legame tra gli uomini sono i valori che essi condividono, valori che sono nella cultura e cioè nelle loro forme di vita, nei comportamenti e nelle azioni, valori che sono nel linguaggio.
Il linguaggio è un insieme di valori, di schemi concettuali attraverso i quali nei secoli della storia dell’uomo abbiamo organizzato e riorganizzato le nostre molteplici e caotiche percezioni. Valori che ci hanno permesso di contare su delle conquiste acquisite dai nostri antenati, che ci hanno permesso, quindi, di essere efficienti nelle scelte per la nostra sopravvivenza nella realtà che ci circonda.

2. l’interpretazione

A differenza della lingua che dipende dalla nostra specifica cultura di provenienza, il linguaggio che condividiamo con i nostri simili è un’attività umana universale che ci permette, riorganizzando le nostre percezioni a partire da valori, di comunicare ma che soprattutto è massimamente creativo.
La descrizione che di volta in volta siamo in grado di fornire di ciò che ci circonda è, alla luce di quanto detto fin’ora, un’interpretazione della realtà. Una produzione di senso e quindi è creativa, è di più di una semplice copia degli stimoli che ci provengono dall’esterno.
Questo procedimento interpretativo è proprio di tutte le attività dell’uomo: per orientarci nel mondo, per portare a buon fine qualsiasi proposito o azione è necessario avere un’opinione su ciò che si sta facendo e questa opinione è la nostra interpretazione del momento presente. È in definitiva la nostra interpretazione della realtà o, forse meglio, la realtà stessa.
Molte sono infatti le interpretazioni o visioni o descrizioni o prospettive (è indifferente come diciamo) della realtà nelle diverse attività umane.
L’arte è una di queste attività e in proposito ha peraltro una posizione esemplare a causa del suo essere precipuamente linguaggio.

3. l’arte

L’arte, nelle sue molteplici declinazioni, è un’attività e una disciplina che si pone inizialmente come mimetica rispetto alla realtà. L’iniziale intento riproduttivo dell’arte è immediatamente accompagnato dall’esigenza sintetica di dire qualcosa della realtà, darne una lettura, un’interpretazione. Quindi non solo copiare ma aggiungere contenuti al materiale osservato.
Sul versante francese dei Pirenei nel 1940 sono stati trovati in un gruppo di grotte a Lascaux dei graffiti preistorici datati intorno al 35.000 a.C. considerati come il primo esempio di produzione di immagini dell’uomo. Ora, i graffiti della grotta di Lascaux non sono solo la riproduzione delle scene di caccia cui il loro autore aveva assistito nel corso della sua vita ma ne sono una rappresentazione. I tori, i cervi, le mandrie di cavalli selvaggi sono quelli della sua mente non quelli che pascolano fuori dalla sua caverna e nella sua mente c’è anche ciò che ha provato, il suo stupore, la meraviglia, l’orgoglio e la paura della caccia e c’è l’incanto di farne un racconto di immagini.
E questo per dire che il realismo inteso nel senso tradizionale di riproduzione della realtà non è mai esistito nell’arte, come nella filosofia o semplicemente nel pensiero dell’uomo il quale, fin dai suoi esordi, ha fornito della realtà descrizioni piene di pathos molto più vicine al racconto che alla semplice copia.
Ogni descrizione, anche la più fedele e accademica, infatti, è un’interpretazione perché l’osservatore nella sua osservazione non può prescindere dal suo punto di vista. Nessuno è in grado di guardare il mondo e le cose da un punto non soggettivo, da fuori della sua pelle, solo l’occhio di Dio può giungere a questa vista ma, ahimè non è per noi.

Questo discorso sul realismo e la capacità riproduttiva del reale che l’arte ha affinato nei secoli della sua progressione fino a noi è per dire che non vi è alcuna differenza sostanziale tra la splendida Venere del Botticelli di cui è facile innamorarsi e il monumentale “Guernica” di Picasso , magari un po’ più complicato (per l’assenza della verosimiglianza). In entrambi i casi si tratta di un’interpretazione del reale, una narrazione estremamente raffinata e intensa di ciò che circondava l’autore, del suo mondo di stimoli, percezioni e valori.

Renè Manritte, uno dei più famosi pittori surrealisti del ‘900 con un’idea molto precisa del rapporto tra ciò che si considera realtà oggettiva e la realtà invece colta dall’arte, in un celebre quadro dipinge una grande pipa con sotto una scritta nella quale si legge “Ceci n’est pas une pipe” , questa non è una pipa. Bene questo è decisamente il punto.
La pipa reale, l’oggetto attraverso il quale si può piacevolmente fumare durante una buona conversazione, non è in questione nell’arte. L’oggetto rappresentato sulla tela è la pipa del pittore Magritte, la sua interpretazione della realtà non la realtà oggettiva, perché della realtà oggettiva al di là delle nostre interpretazioni e, quindi, al di là del linguaggio, non possiamo dire niente. La realtà è disponibile nel linguaggio e qui non si pone la questione di fare delle copie di qualcosa che sia fuori di esso, sarebbe impossibile.
La realtà oggettiva (la pipa con cui si può fumare) è, non appena interagiamo con essa, la “nostra realtà”, DIVIENE realtà soggettiva: ovvero la nostra INTERPRETAZIONE di quei dati sensoriali e di quelle immagini che ci provengono da fuori.
Ora, Magritte, dipingendo un oggetto che comunemente si ritiene appartenente alla realtà oggettiva e solida (quella dei tavoli e delle sedie, per intenderci) e contemporaneamente informandoci mediante la scritta che quello che sembra in verità non è, pone con forza la questione dell’interpretazione. Mette in evidenza nella sfera dell’arte qualcosa che è propria di tutta la vita dell’uomo: appunto il meccanismo interpretativo.
L’artista utilizza il linguaggio non verbale dell’arte per interpretare la realtà, le immagini, le forme, i colori sostituiscono le parole e i gesti e ciò che risulta dall’applicazione di questo linguaggio è molto più di una semplice eco, è un efficace strumento di conoscenza.

4. la cura

Cosa ha a che fare l’arte, così definita, con la qualità della vita? Come incontrare l’arte arricchisce la nostra esistenza? E influisce sulla nostra capacità di vivere in salute?
Direi che potremo tentare in proposito due risposte che potremo sintetizzare così: l’arte rende visibile l’invisibile e l’arte crea nuovi mondi.

L’arte rende visibile l’invisibile dice Klee nel senso che traduce in una lingua universale ciò che non siamo abituati a considerare, ciò che nelle nostre vite ordinarie resta al di qua del nostro campo visivo. Dice la Winternson

“L’artista è un traduttore, è la persona che ha appreso come trasferire nella propria lingua la lingua desunta dalle pietre, dagli uccelli, dai sogni, dal corpo, dal mondo materiale, dal mondo invisibile, dal sesso, dalla morte, dall’amore. “

Questa capacità di condurre la nostra attenzione oltre la prima pelle delle cose affina la nostra capacità di visione. Lo stupore che ci produce un’opera d’arte è propriamente lo stupore di una nuova visione. L’artista con la sua personale interpretazione delle cose del mondo ci avvicina alla verità nel senso di condurci in prossimità della domanda socratica sul “cos’è?” di ogni cosa. Il mondo guardato attraverso la lente dell’arte è un mondo guardato come per la prima volta, un mondo pieno di incanto e meraviglia in cui niente è come ce l’aspettiamo perché tutto è nuovo. La luce che circonda le nature morte (si fa per dire) dei pittori fiamminghi rende quella frutta e quei fiori molto più che semplice frutta e fiori, li trasforma in un racconto segreto in cui frutta e fiori sono protagonisti.

E poi l’arte crea nuovi mondi. L’opera d’arte è un mondo, un mondo che prima non c’era.
E questo non accade solo nell’arte contemporanea in cui la nozione di realismo si è complicata perdendo progressivamente l’imput della verosimiglianza, è di tutta l’arte, dell’arte in generale.
Il paesaggio (vedi foto) qui rappresentato , La collina del faro di Edward Hopper, non è quel paesaggio reale, ammesso che esista, ma è quel paesaggio negli occhi di Hopper, occhi che vedono quella realtà a partire dalla sua specifica realtà e vita e pensiero e infinita serie di esperienze, opinioni, sentimenti, circostanze. Quel paesaggio è un’interpretazione e perciò è un nuovo mondo.

Ora fornire una lettura dei fenomeni implica la creazione di un ordine in quel caos di percezioni che ci provengono dal nostro incontro con essi, e questo ordine, in cui un certo numero di fenomeni diviene comprensibile e disponibile, è un mondo.

Insomma ciò che cerco di sostenere è che l’arte non compie una semplice traduzione dei fenomeni complessi relativi alla percezione perché, anche quando l’intento apparente è mimetico, il trasferimento da una sfera all’altra, dalla sfera percettiva a quella linguistica, implica scelte e omissioni, implica schemi di riferimento e valori e quindi anche la traduzione apparentemente più fedele (il realismo, insomma, più accademico) è comunque un’interpretazione: è quel paesaggio, quegli alberi, quel cielo … più (autore).

Il Bianconiglio conduce Alice nel mondo delle meraviglie. Il mondo delle meraviglie è indubbiamente il mondo nuovo e imprevisto e rivelatore dell’arte e Alice siamo tutti noi spinti dalla curiosità e dal desiderio di conoscenza.
Tutto questo ha che fare con la nostra salute se si intende la salute il delicato risultato di un equilibrio tra le diverse forze che animano la nostra vita. L’arte induce alla riflessione, ci nutre di immagini ma anche di interpretazioni e sottili letture della realtà come della vita stessa che conduciamo al suo interno. La riflessione è senz’altro un elemento dell’equilibrio, ci mette in ascolto delle nostre ragioni profonde, aumenta il livello della nostra consapevolezza individuale e di esseri umani.
Insomma, penso che andare a vedere una mostra a volte possa essere più efficace a guarire il nostro malditesta o il nostro maldistomaco di un qualunque rimedio farmacologico.

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