Testo critico di Gavina Cherchi
Testi critici, Sassari, 14 April 2009
Gavina Cherchi

Oltre il ritratto.


La “seconda vista” di cui gli artisti, in quanto tali, sono dotati, consente loro di andare oltre, oltre la superficie delle cose, oltre la maschera di un volto, oltre la densità e opacità del reale, oltre la mera visibilità ottica del mondo. La “seconda vista” è dunque una visione oltrepassante: scorge nel visibile l’invisibile. L’invisibile è infatti una latenza, un possibilità che il visibile sempre custodisce e adombra, e che lo sguardo dell’artista veggente può cogliere e far affiorare in una immagine. L’immagine diviene pertanto ciò che catalizza e attrae, vela e svela l’invisibile, gli dà colore e forma, e dunque corpo e illusoria visibilità. E’ nell’apparenza, nella finzione dell’immagine che l’invisibile, fuggevolmente, si dà.
Nelle due immagini che Gianni Polinas ha realizzato, l’invisibile traluce e si carica di senso. I due ritratti fotografici di Maria Carta che egli ha scelto nell’archivio della Fondazione, sono sottratti alla loro funzione documentaria e funeraria, vicaria e consolatoria di traccia e testimonianza: traccia dell’esistenza di Maria, testimonianza visiva enigmatica e struggente del suo esserci stata, e, al tempo stesso, del suo non esserci più, simulacri della memoria, rimedi contro l’oblio, che evocano più una altrimenti insopportabile assenza, che una ormai impossibile presenza. Appartiene infatti alla natura stessa dell’immagine il raffigurare qualcosa che non è nell’immagine, che è altrove, che è irrimediabilmente assente, e può solo apparire nell’immagine stessa. La parola imago aveva per gli antichi molteplici relazioni con l’altrove radicale che è la morte: significava non solo rappresentazione, imitazione, ritratto, ma anche immagine funebre, maschera di cera, calco del volto del morto, e ombra, fantasma, visione, apparizione.
Polinas cerca di sottrarre i due ritratti fotografici di Maria alla fissità e univocità di imagines funebri, collocandoli in una dimensione sospesa, in un nuovo altrove, uno stato intermedio, in cui si polarizzano dialetticamente memoria e sogno, rappresentazione e presenza, finzione e realtà, traccia ed evento. Dopo l’intervento pittorico di Polinas, che nel bianco e nero dell’originale fa irrompere il colore della vita e la vita del colore, le imagines si trasformano acquistando una nuova modalità di esistenza, e di presenza, si animano, si dinamizzano, tornano ad intrecciarsi con la nostra realtà, vivono nella nostra visione, si schiudono ad uno sguardo interstiziale che le attraversa e va oltre il ritratto per affacciarsi ed entrare nell’evento.
Ciò che questo sguardo scorge, obliquamente, di scorcio, intravede nell’inframondo della prima di queste due nuove immagini (che Polinas ha designato, rispettivamente, col titolo di Terra chiara e Terra scura) è il volto bellissimo di una giovane donna che risplende assorta e felice della luce calda, sontuosa, sensuale di un evento assoluto e ineffabile che è l’incontro con l’amore. Polinas ne tramanda, in due brevi testi innestati sulle foto, la cronaca, ibridata di verità e finzione: la piccola storia privata, in realtà assai comune in ogni tempo e in ogni luogo, di un innamoramento finito male, di una disillusione amorosa, di un inganno e dell’ennesima giovane donna col cuore spezzato. Ma nelle immagini di Polinas questa cronaca minuta, particolare, come in una trasmutazione alchemica che trae oro dal piombo, si trasfigura in altro, acquisisce l’eloquenza potente e catturante, universale, del linguaggio misterioso degli archetipi. Maria allora non è più l’ennesima giovane donna innamorata cui qualcuno, come da copione, ha provveduto a spezzare il cuore, ma diventa una splendida e regale dea dell’amore e del corruccio.
Come seducente e desiderabile dea dell’amore regna in Terra chiara: i suoi lunghi capelli scurissimi acconciati all’antica nel nodo di una morbida treccia liberano il viso e il collo, che sono offerti, come lo sguardo, in dono al desiderio dell’amato, e sono illuminati da un fulgente chiarore che sembra irradiare dal seno e che sulle labbra socchiuse (nell’imminenza del sorriso, del bacio, del canto) arde di un colore più caldo. E colori ardenti e caldi, giallo citrino, rosso purpureo, sono quelli dei fiori immensi e tentacolari che le fanno da sfondo, danzano intorno a lei che danza, la circondano, germogliano gloriosamente dal suo corpo, dalle sue vesti, dalla sua passione, sono il manifestarsi epifanico di eros che, in una diaspora gioiosa e irresistibile, si espande come musica in arabeschi fiammeggianti e tracima dallo spazio stesso dell’immagine, sconfina già oltre la cornice, oltre il ritratto.
Come dea del corruccio e della malinconia , ella regna invece in Terra scura: i lunghi capelli ora sciolti sulle spalle sono un manto cupo che la rende, paradossalmente, arcaica e remota come se indossasse uno scialle da vedova. E’ come se un inverno precoce avesse raggelato il suo mondo e il suo volto, privandolo del colore, e reso esangui le labbra chiuse; priva di colore è anche la mano con cui si chiude nel suo nero manto di tristezza, assorta in una lucida severa rêverie, immobile e silenziosa, solitaria e intangibile, adamantina, altèra nella sua malinconica fredda nigredo. Della fioritura tropicale di Terra chiara resta solo qualche campitura di colore bruno e ocra, alle sue spalle, su un sfondo che è un dischiuso paesaggio dell’anima, abbandonato da eros, segnato e sezionato da linee verticali bianche come lame taglienti, in cui hanno fatto la loro significativa apparizione il verde e l’azzurro, i colori freddi che sono il nuovo orizzonte del suo sguardo dolente.
Ma, poiché appartengono allo stesso inframondo, e allo stesso volto, allo stesso corpo, Terra chiara e Terra scura si co-appartengono, ineludibilmente, in una relazione di reciprocità e coesistenza, in una polarizzazione dinamica che rende possibile l’inversione della sequenza “narrativa”, teleologica, diacronica, su cui sembrano spontaneamente disporsi. Le nuove immagini di Polinas sono in realtà sinottiche, perché ontologicamente sincroniche, organicamente coese, inseparabili, come l’avvicendarsi ciclico e ritmico della luce e dell’ombra, del tempo, del respiro, delle lune, delle stagioni, della gioia e del dolore, della vita e della morte . La visione oltrepassante di chi è dotato di “seconda vista”, di chi vede l’invisibile nel visibile, la vita nella morte, vede oltre il silenzio e l’inverno, oltre la nigredo malinconica di Terra scura che custodisce e prepara nuovi canti d’amore e di desiderio, l’estate, l’oro e la porpora, lo splendore effimero ma ritornante di Terra chiara.


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