Bali – Indonesia
Giuseppe Ciracì - Gianni Moretti - Svetlana Ostapovici - Federico Arcuri
A cura di Martina Cavallarin
L’associazione culturale scatolabianca promuove una nuova serie di mostre personali che si svolgono tra luglio e settembre 2010 negli spazi del Gaya Art Space di Bali, Indonesia. La rassegna, a cura di Martina Cavallarin, prevede una bi-personale di Giuseppe Ciracì e Gianni Moretti dal titolo Paper Heroes che apre la serie mercoledì 14 luglio, la mostra personale di Svetlana Ostapovici dal titolo human warmth traces che inaugura sabato 24 luglio e la personale di Federico Arcuri dal titolo Tracks from diary il cui opening è previsto per lunedì 2 agosto.
Giuseppe Ciracì - Gianni Moretti - Paper Heroes
Paper Heroes è un’esposizione a due voci sole strutturata attraverso una serie di lavori su carta.
Giuseppe Ciracì (Brindisi 1975) ha una tecnica che lavora sul visibile e l’invisibile, su uno strappo creato dai materiali quasi fosse una lacerazione della superficie pellicolare, un’alternanza tra “scheletro e pelle” con una proprietà di codice poetico sapiente e dai tempi allungati. Spesso le sue opere a matita sono composte da una dinamica moltiplicata da più fogli che contengono un repertorio organizzato di informazioni a costituire un’unica narrazione. Nell’installazione centrale del Gaya Art Space sedici moduli di carta sono posizionati orchestrando e proporzionando la quasi assenza di tratti fisiognomici fino alla costipazione di insiemi di particolari specifici posti in ordine sparso, ma razionalizzato, intorno al foglio che accoglie la testa centrale come a raccontare l’impossibilità di incontro che avviene tra l’interezza del corpo e le relazioni tattili, tra sé e sé e tra sé e l’altro. In questa linea di tensione l’artista trova il clima della resurrezione di una cifra unica e ingiudicabile, capace di costruire erotismo anche nella definizione maniacale di un’ossatura o nella leggerezza persistente di un particolare anatomico. L’esigenza primaria di Ciracì è il cammino verso l’essenza accostato alla costruzione di presenze doppie dove abitano il fare e il pensare. Spossessare dalla propria identità il soggetto rappresentato sottoponendolo a un’asciugatura avviene attraverso la contrazione di una frattura metodica del suo codice artistico che aspira sempre più ad uno stato di trasparenza.
Gianni Moretti (Perugia 1978) pratica un’indagine che va nella direzione dell’indefinibile attingendo i suoi lavori alla realtà della percezione e aspirando ad essere molto più di ciò che appaiono. Il suo lavoro sembra sempre dimostrare di poter essere trasformato, riportato ad altra vita, acquisire nuova dignità. Requiem (365 singhiozzi per Dawson) è un’installazione site specific realizzata dall’artista durante la sua residenza presso il Mongin Art Center di Seoul. Si tratta di un lavoro che poggia sulla frammentarietà della decostruzione, su una poetica del riutilizzo della memoria e dell’aspettativa. La figura-matrice del lavoro prende forma e origine dalla statuaria greca che il giovane artista perugino disegna e impregna d’inchiostro per imprimerla poi sui singoli fogli di un calendario coreano srotolato al contrario, ovvero partendo dal 31 dicembre per tornare al 1 gennaio. L’opera oscilla sulla pratica artistica del processo nel senso di un continuo scambio tra visibile ed invisibile, sulle infinite possibilità della percezione retinica che lascia altalenante il posto a sensazioni più estreme e nascoste, a codici antichi ridefiniti per ottenere la visione necessaria e ossessiva di uno sguardo acuto, personale e estremamente contemporaneo.
Memoria e aspettativa possono far risorgere e far rinascere, diventare testimoni di un riscatto, di un’inaspettata apertura alla vita. Nei suoi spolveri come nei monotipi trapela continuamente un’attesa di redenzione, di resurrezione. Nell’opera c’è il senso del riscatto, un’attesa escatologica connaturata nella natura stessa dell’arte che si apre alla possibilità di risorgere nel senso di ri-fiorire, e germogliare, e germinare nuove direzioni, disseminare un ordine di mutamento nello stesso ordine delle cose per gestire tra quelle pieghe disubbidienti incantesimi e piaceri. Questo processo innestato da Moretti aiuta a cogliere l'enorme varietà e complessità che possono essere nascoste, ripiegate come immagini dormienti, in una semplicità solo apparente.
Svetlana Ostapovici - human warmth traces
Svetlana Ostapovici (Repubblica di Moldova, 1967)
Human warmth traces è una mostra personale costituita da una serie di immagini realizzate tramite una sofisticata apparecchiatura che rileva, con uno speciale sensore, l’energia termica emessa nell’ambiente da tutti gli elementi che lo compongono, e prevalentemente dagli esseri viventi. Le “tracce umane” sono quindi il risultato di un’indagine sulla presenza, sulle dinamiche di appartenenza per uno studio di matrice antropologica reso accattivante attraverso l’uso di cromie dai toni vivaci e suadenti.
Il percorso artistico sviluppato negli anni da Svetlana Ostapovici dal punto di vista linguistico nasce da un’elaborazione in chiave personale del mosaico mentre i contenuti si concentrano e si sviluppando su una ricerca di matrice introspettiva, sui problemi dell’identificazione e sul perché esistiamo. Artista attenta e sensibile negli anni sposta la sua attenzione sulla natura, intesa come fondamento dell’esistenza di tutti gli esseri viventi. A questo punto il suo media espressivo diventa la fotografia attraverso la quale blocca immagini di incendi, distruzioni, e catastrofi generati dall’uomo. Il suo è un lavoro di indagine e denuncia del genere umano che portato per natura a distruggere provoca inevitabilmente la sua stessa autodistruzione. Per questo motivo le sue installazioni sono costituite da materiali di recupero mentre l’obiettivo si concentra su ciò che resta, sulla trasformazione della materia, sulle discariche e sui cantieri.
Per Ostapovici l’umanità si può salvare dall’autodistruzione solo rigenerando tutto ciò che usa, consuma, scarta. La successione dei suoi scatti forma un insieme organico pur mantenendo ogni singolo lavoro una privata autonomia che parte dalla completezza dell’intenzione e da un’onestà intellettuale che avvalla la presenza dell’intero sistema semantico quando la singola foto si fa opera a più voci, composizione a parete multipla ed ossessiva. Il suo lavoro è replica del sistema circostante in stato di emergenza per stabilire un filone narrativo che costituisce situazioni di causa ed effetto, constatazioni psicologiche reali in un paesaggio reso quasi astratto e galleggiante dalla posizione esistenziale resistente e neutrale dell’obiettivo fotografico. In questo processo temporale e sistematico apparentemente asettico la presenza intellettuale responsabile dell’artista rende il percorso dell’opera esente da artifici e calcoli. Il valore aggiunto della Ostapovici, sta nella zona sottile della psicologia personale, di una temperatura artistica cosciente e coscienziosa, pronta ad indagare i limiti della collettività e le fragilità del singolo, coraggiosa e frontale, mai refrattaria alla domanda e disposta al prevedibile come all’imprevedibile.
Federico Arcuri - Tracks from diary
Federico Arcuri (Olanda 1963)
Tracks from diary è un racconto, una mostra che si articola mediante quadri di medio formato e segni gestuali riportati ad acrilico su grandi arazzi di tela. Per questa mostra personale al Gaya Art Space di Bali Arcuri sviscera una serie di impressioni catturate durante i suoi recenti viaggi negli Stati Uniti unite alle sensazioni accumulate durante il suo soggiorno balinese che precede l’esposizione e che gli concede di modulare un ciclo pittorico creato appositamente per la rassegna indonesiana. Pittore di matrice espressionista Arcuri si esprime prevalentemente con opere in bianco e nero che indagano il tema del viaggio, le attese, le lunghe file di persone quasi trasportate in uno stato di assenza, in uno spazio a più dimensioni in cui si coglie il senso dello straniamento e della perdita. Separando realtà e presenza, Arcuri descrive figure di spalle che seguono un flusso come prive di volontà, estranee le une alle altre, a costituire una folla in cui lo spostamento del pensiero risiede sotto il segno dell’erranza e della falsa apparenza. La tecnica di Arcuri si serve di collage su tela, carta, acrilico e gesso per un impatto pittorico molto materico. La sua pratica artistica è libera e si svolge in un arco tattico dilatato dove è possibile uno sprint in avanti e il recupero della memoria, la sospensione contemplativa dell’evento e l’accelerazione delle energie. Il nero acrilico e la luce delle pennellate decise o tratteggiate o volutamente irrisolte sono segni che riproducono immediatamente, nella forma, il contenuto. Le sue esternazioni liriche ed emotive, rimando tra segno e colore – quel nero e quelle improvvise luminescenze – denunciano una posizione in cui la ricerca linguistica contiene anche una resistenza morale.
martina cavallarin
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