Interviste, Arezzo, 05 May 2009
V.L.
L’altro giorno mi hai detto, commentando una delle tue opere, che l’occhio è il grande truffatore. Come dice Arnheim l’arte è “il mezzo di percezione che ci rivela l’essenza della nostra esistenza” e, questa percezione, è un fenomeno psichico in cui intervengono sia i sensi che un’infinità di altri elementi: condizionamenti sociali, culturali, emotivi e , soprattutto il ricordo…da questo proviene la malinconia del pensare che percepiamo solo quello che vediamo o conosciamo; per questo si può perdere tante realtà. E’ necessario rompere la barriera ed andare oltre in modo che l’occhio dell’anima guidi quello fisico. In questo modo forse invece di “coprire” si possa “s-coprire” la vera essenza delle cose.
Sul comodino tengo il “livro do Desassossego” di Pessoa che descrive perfettamente questo pensiero: “come vorrei (….) non aver mai imparato dalla nascita ad attribuire nomi convenzionali alle cose; poter separare l’apparenza attribuita che le cose hanno dalla loro essenza (…) vedere tutto come se fosse la prima volta come una rinascita della realtà (…) il lato nascosto di tutto ciò che esiste, quel lato attraverso il quale le cose comunicano con la mia anima. Sono diventato un ceco vedente. Il mio modo di sentire fa parte della banalità. Cammino lentamente come morto e la mia vista non mi appartiene più, è quella dell’animale umano che ha ereditato, senza volerlo, la cultura greca, l’ordine romano, la morale cristiana e tutte le altre illusioni che formano la civiltà all’interno della quale io assimilo”. Esiste una via d’uscita?
E.M.
La cultura greca? I Romani? Quel che mi interessa è valutare il peso che ha la storia nel tempo e di come influisce nel modo di agire degli esseri umani.
In realtà, la Storia, ha una rilevanza che a volte non può essere percepita dalla ragione, una rilevanza data dalla memoria. Non credi?
La così detta psicologia della testimonianza si occupa di verificare la credibilità di determinate testimonianze date da diversi individui che hanno assistito a determinati eventi cercando di valutare quanto incidano i pregiudizi e gli stereotipi all’interno dei ricordi. Questi ricordi, a loro volta, sono influenzati dagli affetti, preoccupazioni, interessi, passioni, stanchezza ma anche dalla versione prevalente del fatto che porta ad eliminare tutti i dettagli non concordanti.
Penso che tutte queste variabili siano uno dei più grandi problemi della Storia. E che dire della contemporaneità? Che dire dei momenti che stiamo vivendo?
La modernità con la peculiarità dell’azione comunicativa incentrata sulla riproduzione della trasmissione di valori e norme è permeata da regole di razionalità economica ed amministrativa, percui obbligata ad una razionalizzazione completamente aliena alle regole della comunicazione stessa. Questo è il motivo per cui la Storia ha perso di importanza in una società basata sul senzazionalismo. E’ normale ed a volte necessario tendere ad eliminare i dettagli. la mia lotta interiore è di origine massmediatica: per mezzo di questa ci incitano a cancellare quel che è successo ier, a pensare solo alle disgrazie di oggi. in fin dei conti sono anche io figlio dello Spectrum. Riesci a capirmi?
V.L. Sì, probabilmente è lo stesso concetto che dicevo commentando Pessoa, il carattere ”usato” di come vediamo il mondo... i mass media amplificano ancora di più questo aspetto banalizzando tutto portandoci ad un unico punto di vista: alla fine diciamo e pensiamo tutti le stesse cose; e ci stanno togliendo punti di riferimento! Diventa ancora più difficile cercare di avere un primigenio punto di vista; ascoltare il silenzio dove vive l’essenza immutabile delle cose.
Non mi interessa che formalmente Cezanne abbia aperto la strada verso il cubismo, io amo ed invidio la perseveranza della ricerca, l’ostinazione, l’ossessione per scoprire la verità, per arrivare a sfiorare l’essenza.
A me sembra che il tuo lavoro abbia l’intenzione di trasformare o farci riflettere sulla nostra condotta, in un certo senso, attraverso dei simboli: narra e critica. Non è che è un geroglifico? Pieno di indizi che portano ad una soluzione, che ti importa che sia facile o meno capire il messaggio, la Storia che c’è dietro.
E:M. Hmmm, vediamo... in realtà le mie immagini si che pretendono di farci riflettere e formulare le cose attraverso il linguaggio della linea, senza dimenticare che queste cose sono a loro volta processate dalle leggi universali del disegno.
Il messaggio invece lo deve estrapolare lo spettatore: io solo ho il ruolo di catalizzatore, di ripetitore di onde che permette allo spettatore di immaginarsi una soluzione cognitiva per mezzo di diagrammi. Diagrammi che nascondono informazioni, che si rompono, si sovrappongono, insomma, disegni che si intuiscono... in un certo senso io solo presento un gioco, giocarci attiva la curiosità dello spettatore e lo incita ad una visione riflettuta. E’ importante per te la quantità di informazioni?
V.L. Assolutamente NO!!! Preferisco l’evocare all’informare. Nel modo in cui esponevi: indurre una riflessione. O bensì qualcosa che non venga troppo filtrato dalla mente razionale, analitica, bensì attraverso la riflessione interiore. Una ricerca “dell’altra voce” di Octavio Paz, sussurrante, che ci parla degli stati di dormiveglia.
Non riesco a vedere l’arte separata dall’aura di un contenuto spirituale in qualche modo, quando vedo i tubi di neon di Flavin o i tappi di Carl Andrè, mi chiedo se la stessa scelta dei materiali non abbia già un significato intrinseco, una valenza simbolica... alla fine l’opera si trasforma in uno specchio introspettivo.
Mi piace quel che dici a proposito dell’aspetto ludico per catturare, stimolare lo spettatore e portarlo ad una riflessione seria. Io non sono ludica... penso che il “gioco” si stabilisca al momento stesso della creazione dell’opera, nei materiali nelle tensioni, nelle venature, nelle colate, ri-scoperte casuali. Immagino che anche a te succeda, suppongo succeda a tutti la seduzione del materiale... ! Di fatto sono arrivata alla fotografia con la gomma per l’aspetto manuale, impreciso, per l’aspetto viscoso dell’insieme, l’instabilità, la fragilità di ciò che viene rivelato. Non importa la velocità dello scatto piuttosto il momento dello sviluppo, la possibilità di trasformare, la possibilità di commettere errori... vagabondare sulla superficie, velare e svelare, e che magia!
Da tempo cercavo un’immagine meno concreta, meno attaccata all’aspetto superficiale delle cose. Paradossalmente a ciò sono arrivata attraverso la fotografia. Un mio amico fotografo – G. Fortunato – mi ha parlato della tecnica della gelatina bicromata ed ho iniziato a fare prove nel mio studio. La gelatina in sospensione, i pigmenti, l’immagine che apparariva nell’acqua mi hanno affascinato. Infine c’è l’idea permeante che la fotografia descriva ciò che è stato e ciò che non è più (animula)...
E.M. La mia esperienza con la fotografia è stata molto bella: quando studiavo non mi piaceva la fotografia, mi sembrava fredda, senz’anima, mi piaceva solo come mezzo di archiviazione di momenti. Poco a poco, lavorando parallelamente con l’incisione, il valore del disegno – e soprattutto dellla linea come segno – ha assunto una predominanza assoluta. Il 16 giugno – me lo ricordo perchè è il giorno del mio compleanno – faceva molto caldo nel laboratorio di incisione dell’ Universidad de Cuenca, io che ho la pressione bassa, ero completamente intossicato dai fumi del laboratorio. Mi prepararavo a stampare un’incisione monocromatica puramente grafica. Faticando molto continuavo a girare il torchio finchè non ritenni che l’immagine fosse stampata sul mio “ipotetico” foglio. Quando tolsi la prima lastra vidi che qualcosa non aveva funzionato; avevo usato una fotografia, appena sviluppata, al posto del foglio e l’incisione si era semi-impressa sulla fotografia! Fu il mio regalo di compleanno. Senza rendermene conto avevo creato un linguaggio che tuttora continuo a sviluppare.
Il fatto di usare la fotografia (per altro come sfondo) serve come filo conduttore di un discorso. La fotografia crea un luogo comune, uno spazio di esplorazione che trascina lo spettatore a se, visto che sono immagini che lo spettatore – lettore prende come scene in qualche modo familiari. Usando le parole di Ronald Barthes: “io non vedevo altro che il referente, l’oggetto desiderato, il corpo prediletto.”
Parlando metaforicamente quando un oggetto si apre lo spazio fra il lettore e l’opera d’arte si fa più breve. Si ottiene un maggior coinvolgimento dello spettatore, egli si immerge in un ambito nel qule gioca a ricostruire l’immagine per dargli un significato diverso ed individuale.
Per questo stesso motivo uso il disegno: cerco di smitizzarlo, frammentarlo, romperlo, frazionarlo, fonderlo, cancellarlo e tornare a disegnarlo. A me piace chiamarlo concetto di frammento: ognuno dei frammenti che si possono ottenere (d’altronde sono illimitati) svolgono un ruolo autonomo e mantengono un sistema di interrelazioni che collimano fra di loro. Ogni insieme di frammenti, i disegni, sono un microsmo che trova un senso all’interno di un macrocosmo, la fotografia, dando all’opera un ritmo proprio, ed allo spettatore uno spazio di integrazione con l’opera. Vedendo le tue opere, mi chiedevo il perchè della distanza fra lo spettatore e l’immagine. Vuoi aggiungere qualcosa su questo?
V.L. Perchè lo spettatore è un corpo estraneo, risposta immediata e senza ragionamento. La distanza è spaziale e temporale. Entrare in un’opera esige tempo e silenzio. Sicuramente parto dalla base che lo spettatore sia empatico come me, e che così si stabilisce la relazione. E’ inutile che mi sforzi, che insista, non mi importa quello che pensa o sente. Non mi voto alla ragione, io pongo uno specchio davanti, se vi si riflette bene, se no... finisce la magia... può apprezzare la forma, l’apparenza estetica... ma quelle linee e quelle forme sulla superficie hanno un’anima ed esistono grazie a quella. Sicuramente non cerco una relazione dinamica, le opere sono estatiche, sospese, come se stessero trattenendo il respiro, la bocca semiaperta, percependo qualcosa a cui ancora non sappiamo dare un nome.
Spesso la linea delle tue opere descrive elementi meccanici, tecnici... istruzioni per costruire qualcosa? Riflessi di un mondo meccanico? Introducono un elemento inquietante per la loro freddezza... mi viene in mente David Cronemberg...
E.M. La prima cosa che mi viene in mente è la forma: la qualità (disegnativa, se così si può dire) che le linee delle componenti meccaniche hanno. Effettivamente le componenti meccaniche sono forme austere, freddde e geometriche. Producono nella retina una contrapposizione alla linea del corpo umano. Visto che sono comunque disegni vivono in simbiosi, però si contrappongono: mentre il corpo umano è un’opera della natura, le componenti sono prodotto indiretto dell’essere umano. Questo ha una stretta relazione con ciò che Virginia diceva dell’anima; mentre una ha un’anima propria, l’altra, la linea della macchina è e resterà sempre fredda senz’ anima, non è sottoposta a cambiamenti se non per l’usura e non è destinata a morire: non subisce il tempo che passa. Noi sì.
Rispetto a Cronemberg, uno dei miei registi preferiti, entrambi ci poniamo domande su un’ipotetico “mondo meccanico”, di più, il mondo meccanico ha prevalso nelle nostre vite, ha imposto le sue regole e il suo ruolo nel gioco al punto che, nell’arco di solo cent’anni si è trasformata in una parte imprescindibile della vita dell’essere umano.
Vedendo le tue velature bianche con impronte, segni... anche a me è venuto in mente un regista e sopratutto uno dei suoi film, Paris – Texas. Mi parleresti del perchè di quelle velature, solitudine?
V.L. Il perchè delle velature... non ti risponderò in realtà... solitudine, forse. La solitudine è inevitabile, ma anche in senso positivo, necessario. Impossibilità di comunicare.
Sopravvivere, come nel “grido” di V. Wolf : “Non te ne andare vita!”, intuizione della precarietà della vita che noi nonostante tutto tentiamo di fermare come segno di qualcosa di eterno. Protezione e difesa, o una serra che ci isola ed anche forse uno spazio per la nostalgia dove i contorni si disegnano ed entra la memoria... l’immagine che viene da lontano e che ci obbliga a scavare oltre la superficie... da qui l’utilizzo della cera per il suo aspetto trasparente, puro, naturale e misterioso, materiale che riporta alla Terra, alla memoria. La teca/urna che contiene, nasconde, deforma. Testimonianza dell’esistenza, qui, ora, sempre. Sicuramente dove inizia l’opera l’autore tace...
E.M. Certo che spiegare un’immagine è troppo difficile: l’errore non sta nel non saper spiegare un’opera piuttosto nel giustificare un’immagine. L’artista per creare deve cercarsi un proprio linguaggio.
Ovviamente non mi piace giustificare l’immagine perchè deve parlare con un meccanismo proprio. Io cerco di spiegare al lettore come funziona qome funziona questo complicatissimo meccanismo dell’opera, come si deve sedere e creare un dialogo con la stessa. L’importante è ciò che l’opera ed il lettore si dicono. Qualcosa che neanche il lettore saprebbe spiegare a parole perchè personale ed intraducibile. E’ per questo che a me non importa lo spettaore, perchè ha già creato un vincolo con l’immagine,
Ya son – Mos amigos.




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