Gender Check, quando l'arte è una questione di genere (e di politica)
Testi critici, Austria, Vienna, 15 January 2010
Gender Check è una mostra - a Vienna, presso il MUMOK - che commemora il ventesimo del crollo del muro di Berlino e racconta degli stravolgimenti politici che, coerentemente a ciò, hanno scosso l’Europa orientale sul finire del novecento.

In rilievo v’è subito la beffa dell’utopia egualitaria marxiana.

Poiché qui – a partire dal comunismo per giungere al post-comunismo e ai nuovi tipi di capitalismo - si è scelto di mostrare le produzioni d’arte dell’est europeo attraverso il filtro, finora mai utilizzato, delle tematiche di genere.

Ne viene fuori una ricognizione nuda e cruda dentro società progettate per annullare le differenze tra maschile e femminile, che poi sarebbero collassate nella detonazione scaturita dal confronto con la civiltà del capitale, basata sulla bellezza competitiva.

Ecco che l’arte, al tempo del socialismo (sur)reale, era solo fine propaganda pericolosamente sospesa tra tragedia e farsa. Memorabile, a tal proposito, il bel quadretto familiare proletario del polacco Wojciech Fangor. Il dipinto – del 1950 - illustra un uomo e una donna «nuovi», due braccianti (con lei che pare una lesbica incazzata) intenti a lanciare occhiatacce di riprovazione nei confronti di una creatura diafana con le unghie dipinte, incarnante l’ignavia strutturale della femmina borghese (e c’ha pure scritto “Wall Street” sullo scialbeggiante vestitino). Didascalismi. Curiosi da guardare, col senno del postmodern.

In realtà la storia avrebbe poi dato ragione alla bonona fatalona con l’occhialone Gucci - che nel capitalismo finanziario si sarebbe trasformata nella geisha-velina bulimica (perché ingozzata di benessere) che oggi tronisteggia – relegando queste femmine bitorzolute e severe all’immaginario bizzarro di qualche feticista della domenica.

E’ interessante notare, adesso, come questi artisti che andavano “tastando” l’ovest - «Taste the West» c’era scritto sui manifesti pubblicitari di Berlino, nel 1991 (era riferito a delle sigarette, ma rende comunque l’idea) – avrebbero dato forma e colore (o informità e monocromatismo) alle proprie tormentate esistenze di proletari di tutto il mondo che andavano in paradiso.

Cioè entravano, finalmente, nel grande centro commerciale denominato Occidente®.

Deliziosa, a tal proposito, l’opera del 2001 della slovacca Eva Filova. S’intitola “Without Difference” e si tratta di tette in vendita, donne in vendita, sagome da plagiare. Sùbito, assolutamente. Il pasticciaccio culturale al tempo della globalizzazione è un must e le femmine dell’est non ci stanno più a vestirsi da operaie sfigate emananti erotismo pari a zero. Vogliono il rimmel, le Manolo Blanhik, l’assorbente Vuitton. E’ questa la vera parità, ossia ritornare ad essere femmine. Spostare la battaglia col patriarcato sul terreno della seduttività è stata, per le donne, una grande mossa.

Tanto che gli uomini si son dovuti effeminare per restare al loro livello. Da qui in poi, la confusione è completa. E come tale la raffigurazione estetica la coglie, soprattutto questa Ostart qui. Molto art e poco ost(ica), si potrebbe asserire.

Si pensi alle donne con le palle della ceca (senza –slovacca) Veronika Bromová. L’opera è del 1994. Meno di trent’anni prima, da quelle parti, i sovietici soffocavano nel sangue una Primavera dal sapore kafkiano che distrusse per sempre la credibilità dell’utopia socialista applicata a delle cavie da laboratorio.

Queste cavie qui - persone sensibili, un po’ malinconiche (come solo a est sanno esserlo), di sicuro generose – si chiamano Petra Varl, Alla Georgieva, Rovena Agolli, Sua Maestà Marina Abramovic.

Fioccano artiste donne che divengono eroine. Come novelle Artemisie Gentilesche umiliano i colleghi maschi sul terreno (questa volta) reale - perché competitivo in senso capitalistico – delle identità. Capaci di parlare esse stesse, e in prima persona, ormai, della propria condizione.

Donne, prima di tutto. Fuori dalle etichette di un femminismo che a occidente s’era troppo compromesso col pensiero di una società senza classi, ove il problema del genere non esiste perché non c’è più la sacra e profana umanità delle persone. Donne che cercano un marito con passaporto comunitario (come narra l’ottima serba Tanja Ostojic) perché la verita è che solo accoppiandosi, con l’occidente, le vittime del socialismo possono cogliere appieno l’essenza del nuovo mondo del quale sono diventate parte.

Il dato di fatto è che l’esplosione della democrazia ad est permise alle donne di liberarsi, paradossalmente, dal giogo della pari opportunità di stato, concetto deviato di regimi devianti.

E questo è visibile attraverso l’arte. Con la critica alla mercificazione galoppante odierna che fa bella mostra di sé, accanto alla rappresentazione delle vecchie ideologie d’onore del sistema comunista. Attraverso questo delizioso ensemble che è un salto borderline dentro l’assurda storia del genere. Umano.

Fonte: Il Sole 24 ORE

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