Il linguaggio del corpo all'Albertina di Vienna
Testi critici, Austria, Vienna, 14 August 2009
Il corpo, nell'arte, è il corpo dell'arte. Essenza – palpabile – della vicenda umana, appesa tra cielo e terra. A Vienna va in scena Body and language, una tersa ricognizione circa le qualità espressive del corpo, il suo significato sociale e le multiformi sfaccettature del linguaggio anatomico odierno. Trattasi di esposizione fotografica cool, allestita presso l'altrimenti austera Galleria Albertina – ossia il gabinetto delle stampe – ove la materialità dei soggetti ritratti (circa ottanta) affiora, beffardamente attutita, nell'incessante e spietata tensione fra reale e ideale, bellezza e orrore, storia culturale del corpo e spasmodica egolatrìa da assenza di sostanza. Su tutto, il complesso processo di negoziazione tra l'umana figura e le urgenze dell'artista, il quale, stordito dagli effetti dirompenti della tecnofollia, s'affanna tra riproduzione artistica e riproduzione autistica di un corpo che s'è già spogliato di tutto, perfino del costume adamitico.

Ecco che il designer Erwin Wurm annega le nude membra di una modella sotto un mare di borsette griffate, poi s'infila banane un pò dappertutto. Scene, assurde, d'incontri tra corpi ed oggetti poiché, al tempo del consumo, l'orpello parla da sè. E l'umana pelle - quella che un tempo parlava da sola - o è siliconata, anabolizzata, tatuata, marchiata, sbiancata, liftata, ibernata, oppure non è. Intanto il fotografo Gottfried Helnwein genera drammatici giochi di luce e di contrasti per immortalare volti che sono icone. In bianco e nero, nero su bianco. Con la buonanima di Jacko, incipriato fino all'inverosimile, che quasi quasi pare pronto a mutarsi in gagliardissimo zombie. L'immortale Helmut Newton, nel frattempo, ridefinisce – mescolando consigli per gli acquisti e fine gusto estetico - i confini del tabù femminile. La serie "Big Nudes" è un susseguirsi incantato di istantanee a matrice erotica sublime, come fossimo in presenza di una produzione plastica postellenistica. Da parte sua, Elke Krystufek racconta la perdita di identità della donna, fagocitata dalla mignottocrazia politico-televisiva e da una concezione fallocentrica del potere rosa. E lo fa per mezzo di composizioni nelle quali scompare qualsivoglia concetto di intimità, nel nome di un patetico esibizionismo che, accantonata la retorica della rivoluzione liberatoria, ha come unica funzione il massivo perseguimento di un misero – ma, a quanto pare assai gratificante - quarto d'ora di celebrità mediatica. Dall'altra parte della sala la riflessione di John Coplans è straniante. Costui, morto nel 2003, è noto nel mondo della fotografia per aver documentato lo scorrere del tempo attraverso tracce di frammenti del proprio corpo, escludendo sempre, però, la testa. Questo perché i suddetti, meticolosi, ritratti dovevano - secondo le intenzioni dell'artista - essere universali. «Corpo come mezzo d'espressione». Vuol dire tutto e non vuol dire niente, si sa.
E il linguaggio del corpo, così, si scioglie nel flusso ininterrotto di riproduzioni in tempo reale ove la materia umana, una frazione di secondo dopo essere stata immortalata, ha già assunto forme e funzioni differenti. Linguaggi assordanti e caotici, ovvero nessun linguaggio.

Fonte: Il Sole 24 ORE

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