La loro ricerca plastica portò, inoltre, a una ridefinizione tecnico/tattica del modo di fare scultura, codificando pratiche tuttora in voga nel disarmante universo dell'espressione estetica contemporanea. Il surrealismo in 3D degli albori si configurava, dunque, come esperienza multisensoriale, visuale e tangibile al tempo stesso. Provocatoria, eccessiva, disarmante, sgradevole: in due parole, unica.
«Sono un bambino in fasce / Avvolto con una presa ferrea» avrebbe scritto anni dopo Meret Oppenheim per condensare la propria esistenza. Lei, musa dei surrealisti, avrebbe creato (quasi per gioco) il simbolo dei simboli: la tazza di pelliccia. Era il 1936 e Meret aveva 23 anni. A quel tempo produceva braccialetti ricoprendo di pelliccia anelli di metallo. Indossava uno di quei bracciali mentre sedeva con Dora Maar e Pablo Picasso al Café de Flore a Parigi. «In fondo qualsiasi cosa potrebbe essere ricoperta di pelliccia» disse Picasso e Oppenheim replicò: «Anche questo piattino e questa tazzina!». Così corse ai Grandi magazzini e acquistò quelle modeste stoviglie che poi avrebbe ricoperto di pelo di gazzella cinese e sarebbe passata alla storia. André Breton battezzò l'opera come "Déjeuner en fourrure", fondendo, irriverente, la "Déjeuner sur l'herbe" di Manet e la "Venere in pelliccia" di Sacher-Masoch. Quello stesso anno la tazza, capostipite assoluta del genere pop-maculato, venne acquistata dal MoMA che oggi la espone come fosse una reliquia.
Erano lavori di gruppo, in fondo. Una genialità collettiva che si esprimeva attraverso ibridazioni (un mondo transgenico ante-litteram?) di insetti e umani, destrutturazioni di corpi, cambio di destinazioni d'uso, cannibalismo, straniamento dello spettatore.
Infinite perversioni, candide come i sogni dei fanciulli.
Fonte: www.ilsole24ore.com
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