Colazione newyorkese in pelliccia
Testi critici, Stati Uniti, New York City, 07 August 2009
Eros e surrealisti. Il MoMA di New York presenta: "L'oggetto erotico – Scultura surrealista dalla Collezione" ed è un bel vedere. Soprattutto perché si tratta di una ventina di opere di culto – tutte realizzate tra gli anni trenta e cinquanta del Novecento – che il museo americano custodisce gelosamente da decenni. 11 artisti che si chiamano Dalì, Mirò, Oppenheim, Man Ray, Bourgeois, Cornell. Ovvero, il potere sfacciato di trasformare il quotidiano per mezzo dell'immaginazione, con il chiodo fisso dell'eros. Perché quando il surrealismo uscì dalla dimensione bidimensionale della pittura per cercare di creare un'estensione tattile all'universo dell'assurdo che propugnava, inevitabilmente divenne erotico. Di una sensualità prima sottile, poi sfacciatamente esplicita. Fondendo le suggestioni della psicanalisi con la militanza marxiana e il culto per i talismani tribali come risposta alternativa alle esigenze dello spirito, i surrealisti diedero vita a un universo perennemente (e freudianamente) sospeso tra l'estasi sessuale e gli spasmi della morte.

La loro ricerca plastica portò, inoltre, a una ridefinizione tecnico/tattica del modo di fare scultura, codificando pratiche tuttora in voga nel disarmante universo dell'espressione estetica contemporanea. Il surrealismo in 3D degli albori si configurava, dunque, come esperienza multisensoriale, visuale e tangibile al tempo stesso. Provocatoria, eccessiva, disarmante, sgradevole: in due parole, unica.

«Sono un bambino in fasce / Avvolto con una presa ferrea» avrebbe scritto anni dopo Meret Oppenheim per condensare la propria esistenza. Lei, musa dei surrealisti, avrebbe creato (quasi per gioco) il simbolo dei simboli: la tazza di pelliccia. Era il 1936 e Meret aveva 23 anni. A quel tempo produceva braccialetti ricoprendo di pelliccia anelli di metallo. Indossava uno di quei bracciali mentre sedeva con Dora Maar e Pablo Picasso al Café de Flore a Parigi. «In fondo qualsiasi cosa potrebbe essere ricoperta di pelliccia» disse Picasso e Oppenheim replicò: «Anche questo piattino e questa tazzina!». Così corse ai Grandi magazzini e acquistò quelle modeste stoviglie che poi avrebbe ricoperto di pelo di gazzella cinese e sarebbe passata alla storia. André Breton battezzò l'opera come "Déjeuner en fourrure", fondendo, irriverente, la "Déjeuner sur l'herbe" di Manet e la "Venere in pelliccia" di Sacher-Masoch. Quello stesso anno la tazza, capostipite assoluta del genere pop-maculato, venne acquistata dal MoMA che oggi la espone come fosse una reliquia.

Erano lavori di gruppo, in fondo. Una genialità collettiva che si esprimeva attraverso ibridazioni (un mondo transgenico ante-litteram?) di insetti e umani, destrutturazioni di corpi, cambio di destinazioni d'uso, cannibalismo, straniamento dello spettatore.
Infinite perversioni, candide come i sogni dei fanciulli.

Fonte: www.ilsole24ore.com

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