Vedi l'Italia e poi muori. Parola dei francesi
Testi critici, Francia, Departement de Ville-de-Paris, Paris, 26 April 2009
“Voir l’Italie et mourir”, al Musée d’Orsay di Parigi, è una retrospettiva su come si evolve la raffigurazione delle italiche meraviglie nel corso del diciannovesimo secolo, quando nasce la fotografia e le belle arti cessano, per sempre, di avere un senso. Nel contesto delle guerre di indipendenza che le avrebbero presto dato unità politica, la penisola è rappresentata in un confronto tra le arti tradizionali - pittura, disegno, scultura - e i vari mezzi di comunicazione che portano alla fotografia vera e propria. Dalla camera oscura al dagherrotipo, dalla calotipia (che permette di cominciare a fare copie) alle emulsioni col collodio e via dicendo. Un percorso avvincente, che arriva al cuore dell’identità italiana, mentre questa andava formandosi. Vista con gli occhi, perennemente sedotti, dello straniero.
Eppure i manifesti pubblicitari della mostra, comparsi nella metro della capitale francese durante i giorni successivi al terremoto d’Abruzzo, hanno destato scalpore. L’accostamento di Italia e morte giungeva come beffardo, se riferito a una mostra d’arte. Comunque, c’è da dire che era stato Goethe a suggerire «Vois Naples et puis meurs» e da allora nessuno slogan è stato mai più appropriato per descrivere opportunamente quella incredibile miscela di Eros e Thanatos dalla feticistica forma di stivale che è la nostra gloriosa Patria. Era il 1839, dunque, e il primo passo verso la maggiore naturalezza scientifica possibile nella forma della rappresentazione era stato compiuto. E il bel paese, quale culla indiscutibile delle origini storico-culturali del mondo occidentale, non poteva farsi cogliere impreparato. Inglesi, tedeschi e francesi, da secoli ormai, venivano a forgiare corpo e anima qui, da noi. Lasciandosi carezzare dal sole del Mediterraneo tra rovine ricche di storia e nobiltà di gesta riecheggianti nei chiari di luna della laguna, tra gli imperiali fori o sotto il Vesuvio fumante. La miscela di archeologia, cieli psichedelici e umanità carnalmente appassionata era irresistibile. Come nel depliant turistico di un paradiso accessibile e all-inclusive, il “Pacchetto Italia” dei tempi del Grand Tour venne riproposto ai signori del dagherrotipo. Con la differenza che, supportate dal progresso tecnico, si affinavano maestranze locali. Nasceva una prima, rudimentale industria dei media nostrana. Nasceva il Made in Italy, in un senso di brand culturale a vocazione territoriale. Tra lazzaroni partenopei, magici pifferai, fanciullezza procace. Presunta vita di ozi e, sullo sfondo, solamente skyline mozzafiato. Il mercato delle vedute italiane, da che mondo è mondo, non conosce crisi. I primi fotografi, spesso pittori di formazione, si cimentarono col doveroso superamento di una certa visione idilliaca delle lande italiche, per giungere ad affermare una indubbia e oggettiva realtà del paesaggio. Come del resto già propugnava Camillo Corot, seppure coi mezzi della tradizione pre-fotografica. Panorami, monumenti e capolavori museali farciscono la maggior parte dei portfolio. Ma, tanto spazio occupa anche la cronaca, la documentazione. E, nel tempo, cose come la reinterpretazione creativa degli abiti tradizionali, messa in scena dai contadini del napoletano nel corso delle costruzioni di set effettuate dai fotografi, finiscono per attirare orde di turisti. L’inventiva degli indigeni, così, nasce in quanto burla dello stereotipo e finisce essa stessa stereotipo. Nel dagherrotipo. E nel digitale. In un circolo di rimandi che parte da lontano.

Fonte: www.ilsole24ore.com

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