Testi critici, Spagna, Madrid, 09 April 2009
Macchine e anime, al Museo Reina Sofia di Madrid. E arte del XXI secolo, per intenderci. Tra scultori di luce, superfici animate (cioè dotate, per l'appunto, di anima) e scheletri in plastica alla mercè del vento. La Spagna è avanti. E ce lo ripete continuamente. Insidiando (false) certezze nel sempre più obnubilato limes tra rappresentazione estetica e scienza tecnofilìaca, al tempo del mondo numerico. Il senso dell'arte nasce e ri-nasce infinite volte, oggi. E le macchine sono specchi. Come tali spiegano, perciò, che la loro «alma» non è altro che la percezione che della stessa, ne abbiamo, noi umani. Cioè la nostra immagine riflessa. La mostra di Madrid mette in scena illimitate immagini. Diventa, quasi, un susseguirsi di opere mutanti. Visitarla infinite volte equivarrebbe a visitare infinite mostre. Che, a ben vedere, può essere anche un ottimo volano per tutta l'economia dell'arte contemporanea. Dato che gli spagnoli, ormai lo abbiamo capito, non scherzano affatto. E in più si divertono. (Che è quello che noi non facciamo più da anni, ormai). Dunque, spazio ai magici ferrofluidi. Liquidi ipertecnologici che, in presenza di un campo magnetico, subiscono una polarizzazione tale, da assumere forme inaudite e ogni volta diverse. Percezioni che si alterano, come in un trip allucinogeno, ma guidate da una macchina. Ossia, un computer. Vera «anima» di tutte le cose. Qui alla mostra, ma anche fuori da qui e in ogni dove. Gli artisti di questa avanguardia che si chiama contemporaneità, pura e semplice, sono tutti delle star. Si chiamano John Maeda, Mark Hansen e Ben Rubin, David Hanson e David Byrne. Byrne, proprio lui, co-fondatore dei leggendari Talking Heads. Un'icona, anche negli ambienti della net-art. Fotografo, designer, regista e artista visivo. Con Hanson, responsabile di una società che progetta e vende robot dalle antropiche sembianze, Byrne ha messo su un'installazione che conferma come, se ce ne fosse stato ancora bisogno, la robotica possa essere espressione artistica a tutti gli effetti. Autentica(mente) umana. Il pubblico è ammaliato. Alcuni prototipi di robot, con tanto di cranio smontato, per mostrarne i circuiti, sono in grado di riprodurre le varie espressioni del viso, simulando emozioni. Il robot, inoltre, canta. E con la voce di Byrne. Muove la bocca, mostrando, al pubblico, suggestioni. E non solo col volto, ma pure con l'intonazione della voce e con parole che si auto-compongono per l'occasione. Tali da trasmettere sentimenti. Veri. Tutto molto inquietante, ma nessuno osi definirlo kitsch. Il cattivo gusto, infatti, non sembra affatto essere una preoccupazione, quando l'arte è digitale. Anzi. Tutto è talmente sopra le righe, che se uno non si paralizza sui canoni classici, il kitsch finisce per non esistere più. Come pure il passato. Che non pare affatto immune all'e-ondata. Con l'artista serbo Vuk Cosic, insieme col collettivo «Radical Software Group» (RSG), che utilizza un applicativo simile a quello sviluppato dall'FBI per le intercettazioni della posta elettronica (che si chiama, per l'appunto, «RSG»). Solo che lo «collega» a una serie di celebri opere d'arte di grandi maestri del tempo che fu, riprodotte digitalmente e, dunque, modificabili. Ad ogni invio di una e-mail, da parte di chi ha installato il programma, l'immagine cambia. L'opera d'arte che conosciamo, muta. Si anima, se ne stravolgono i canoni e/o la composizione. Si creano infinite variazioni sul tema, esse stesse nuove opere d'arte. Nature morte con la frutta che sparisce e barattoli di zuppa che si riempiono e si svuotano. Arte elettronica, ma non seriale. Poi, però, riflettiamo un attimo e scopriamo che l'arte tradizionale lo aveva già fatto. Nel periodo della luce, con Monet e, in chiave esistenzialista, col Picasso anziano de «Las Meninas». Perché la vera anima delle macchine, in fondo, siamo noi.
Fonte: www.ilsole24ore.com
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