Testi critici, Spagna, Province of Barcelona, Barcelona, 09 April 2009
Tre dischi di vetro dicromatico. Ossia dal colore cangiante, a seconda dell'angolo di incidenza della luce o del punto di vista dell'osservatore. Dischi di diverse misure che pendono dal soffitto ruotando lentamente secondo una sequenza casuale. Ogni disco è di un colore primario: ciano, magenta, giallo. Un proiettore illumina i dischi. La luce che si riflette sulla superficie del disco emette colori complementari. Che generano altrettante ombre sulla parete di fronte. In un determinato momento, i dischi convergono simmetricamente dentro la proiezione. Ciascun cerchio di colore si sovrappone alla metà di un altro. Creando i colori primari. Rosso, giallo, blu. Al centro, nella posizione in cui tutti e tre i colori si fondono, ecco apparire un triangolo di luce bianca. Titolo dell'opera: «Who is afraid». Senza punto di domanda. Perché è superfluo. Almeno quanto il rendersi conto di essere in un museo e non in un laboratorio di fisica. Dettagli? Percezioni sensoriali post-age, quelle di Olafur Eliasson. 40 anni. Mezzo danese e mezzo islandese. L'artista del momento. Un viaggio effimero di luci e colori. A Barcellona. Fondazione Joan Mirò. «La naturalesa de les coses». Apparenze. Percezioni. Ossessioni meteorologiche. E meteoropatiche. Più che di «land art» si tratta di arte atmosferica. Nel senso di espressione attraverso lo spazio. Di ambiente fisico. Chimico. Optocinetico. Statico. Termodinamico. In due parole: liquido. Della tecnica al servizio della forma. Della fine della materia. L'omaggio di Eliasson all'artista catalano del segno in libertà (Mirò) appare, però, un pò sotto tono. Se si pensa che Eliasson ha ricreato il sole (pallido) e lo smog (denso) di Londra. Ma dentro la Tate. Nel cuore (chiuso) di Londra. Bocche spalancate e stupore planetario. Una cascata artificiale sotto il bonte di Brooklyn. Corsi d'acqua che cambiano colore. Gazebo di ghiaccio in Brasile. Ponti sospesi nella nebbia. Fenomeni naturali che invadono tanto gli austeri saloni quanto le location più insolite del contemporaneo. Annullando il confine tra «dentro» e «fuori». Tra realtà e apparenza. Maestro delle illusioni ottiche. Eliasson. Con gli spettatori che divengono attori. Come nella mostra di Barcellona. Niente soli, lune o laghi artificialil, qui, sulla collina di Montjuïc. Ma, piuttosto, caleidoscopi, colori, lenti, finte finestre proiettate. Mattoncini Lego. Su di un tavolo. Tre tonnellate di pezzi di plastica bianca di varie dimensioni. E i visitatori che possono cimentarsi nel costruire la loro visione di città del futuro. Quello che ognuno realizza viene modificato ed espanso dagli altri durante tutta la durata della mostra. Perché Eliasson è (anche) un guru dell'architettura. Un vate del dis-orientamento urbano prossimo venturo. Che si rigenera di geyser e utopia dell'ipertecnologico naturalistico. Come dire che il progresso scientifico ha tolto all'arte la secolare prerogativa di riproduzione e proposta futuribile del reale. Sostituendosi ad essa. E che una «nuova» arte può esistere solo assegnando categorie estetiche (ed estatiche) all'esibizionismo hi-tech. Eliasson è un poeta, nel farlo. Lo skyline di plastica, intanto, muta. Assume sembianze inaudite che rimandano a un qualcosa. Sarà l'aria della Catalogna, forse. Ma sembra di vedere un plastico modernista intriso di Gaudì. Allucinogeno e divino. Assolutamente inedito. Poiché la percezione può alterarsi solo a partire da forme che già possediamo. Archetipi. Sembra scontato, ma no lo è. Soprattutto per un genio come Eliasson. Complicato da raccontare. Ma dal quale è semplicissimo farsi travolgere.
Fonte: www.ilsole24ore.com
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