È quasi tutto falso, oggi. O può disinvoltamente diventarlo, grazie alle immediate possibilità fornite da tecnologie di foto e video ritocco ormai accessibili a chiunque, e soprattutto grazie alle formule collaudate di relazioni e status sociali che vengono acquisite e poi esperite come abiti identitari già confezionati (non solo in riferimento alle così dette subculture veicolate dalla comunicazione main stream, ma anche ai panorami più colti ed esclusivi dell’arte, della politica, eccetera). Così la finzione prende il posto della realtà in una serie di episodiche invenzioni che riguardano circoscritte sfere di autori e spettatori, nuclei artificiali che nel segno di una presunta autosufficienza sfruttano al massimo le possibilità mimetiche disponibili, e si affermano per estromissione di tutti quei fattori che potrebbero strappare il loro cielo di carta, o di plastica.
Mauro Moriconi esplora le pieghe di questo mondo contraffatto e lavora sull’insensatezza dei contenuti e sul collasso delle forme. I suoi strumenti sono gli stessi che vengono utilizzati per mistificare la realtà (le tecnologie digitali), ma lui se ne appropria per renderli funzionali allo svelamento dell’inganno: nel suo lavoro la manipolazione digitale contiene una insolita estetica dell’errore e della manualità che denuncia l’insofferenza verso le adulterazioni del reale.
Questa attitudine distingue la ricerca di Moriconi in un panorama fin troppo intasato dall’emergere di talenti e fenomeni artistici, tutti in movimento sulla corsia preferenziale dell’invenzione spiazzante, della novità a tutti i costi, della velocità interconnessa. Mauro lavora sul medium per divaricare la sua identificazione con il messaggio (in netta opposizione agli assunti di McLuhan). In questa prospettiva, nelle foto stampate su alluminio, la presenza un po’ evanescente delle geisha negli scenari high-tech di Tokio alludono a una condizione plausibile quanto improbabile, e l’oscillazione di senso che ne deriva viene amplificata proprio dal modo in cui viene utilizzato lo strumento. L’intervento di incisione di alcuni profili ribadisce un punto di vista deciso a derogare da immedesimazioni fittizie.
Gli scenari messi in opera da Moriconi hanno un potere di straniamento di matrice brechtiana: portano l’osservatore a disporsi all’esterno, gli impongono l’assunzione di un atteggiamento critico, che sia capace di isolare i processi che compongono l’opera e ricostruire le fasi narrative. Ugualmente, il sentimento di denuncia che innerva buona parte del percorso dell’artista sembra essere una buona guida in operazioni sottili che corrono sul limite del rischio formalista, ma lo lasciano brillantemente sullo sfondo.
La serie “Die Mauer” adotta tutti gli schemi della fotografia di moda, ma simultaneamente dichiara l’operazione di imitazione impacchettando i modelli come altrettanti fantocci. Gli uomini e le donne “in corsa” contro una superficie di mattoni sono paralizzati in un gesto che non contiene né passato né futuro, e si risolve nella piatta deroga della propria presenza agli status precostituiti di cui sopra. E il muro che li accoglie si svela immediatamente per quello che è, una superficie orizzontale, chiamando di nuovo in causa la tentazione delle finzioni, virtuali e non.
Un’ultima cosa va detta: dietro le superfici convenzionali, sotto le patine delle combinazioni virtuali, permane la realtà, lo indica l’artista, ed è ancora emozionante, irritante, imprevedibile e per sempre irriducibile a una serie finita di possibilità.
Pietro Gaglianò
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