José Clemente Orozco, diceva che gli artisti che operano su grandi dimensioni hanno una grande responsabilità sociale, visto che con le loro opere sono in grado di influenzare gli osservatori.
Questa eredità è oggi più attuale che mai e universalmente riconosciuta a grandi artisti che ne hanno segnato la storia come Keith Harring sino ad arrivare a Banksy che per mezzo delle loro incursioni urbane non solo hanno influenzato, ma creato un codice attualmente riconosciuto, usato e replicato in migliaia di contesti.
Non necessariamente bisogna entrare nella psicologia dell’opera, o nel significato intrinseco, sotto il profilo sociologico, che esso porta con se; la forza della figurazione aggredisce l’osservatore sino a condurlo dove vuole la maestria dell’artista, quasi distraendolo ma solo apparentemente dal suo contenuto.
Un’operazione saggia di marketing artistico che io da diverso tempo vado ricordando, “solo agli artisti dovrebbe essere lasciato il compito di comunicare e non ai pubblicitari”. Tornare così ad una comunicazione fatta di contenuti e simbolismi di cui è carica la tradizione prendendo le distanze dai falsi miti.
Federico Zenobi, appartiene alla grande famiglia degli artisti comunicatori, abituato ad operare con una sua tecnica efficacissima su grandi spazi, sa, e non contesta il fatto, che l’arte del muralismo è qualcosa destinata a terminare ancora prima di essere ultimata.
Con questo voglio dire che l’artista muralista sa che l’interazione con il suo pubblico è diretta, non mediata, e quindi in grado di essere alterata in qualsiasi momento anche un istante dopo la sua creazione da un terzo, oppure dagli elementi naturali.
Il muralista per sua conformazione ama gli spazi aperti, solitamente contesta i musei, è quasi un futurista della nostra epoca, che contesta tutto quello che lo circonda, compreso il sistema dell’arte, il suo unico obiettivo è comunicare con la sua opera e non ha la minima importanza quanto questa duri, se solo un attimo o svariati anni.
In questo periodo assistiamo però ad una evoluzione del percorso di molti artisti muralisti, perché c’è una volontà di fermare l’opera, “storicizzarla”, come si dice in gergo.
Ora l’obbligo è passare da una situazione volatile ad una situazione di conferma di quello che si sta facendo.
Zenobi ha avviato questo percorso in modo anomalo rispetto a molti dei suoi colleghi che ad esempio filmano o rendono filmabili alcune loro opere, non riprendendo la performance, ma addirittura rendendo le loro opere delle vere e proprie video installazioni, passando così dalla strada alla pista informatica dove è facilissimo per un bravo artista avere centinaia di migliaia di contatti.
Percorso anomalo dicevo perché ha deciso, e questo lavoro espositivo ne è la prova, di mettersi in discussione realizzando opere piccole, ribaltando completamente la questione.
La rottura, perché come vado dicendo da tempo ogni artista con la sua opera deve avere un suo punto di rottura, altrimenti non è arte, si ha nella provocazione legata al materiale usato, lastre di ferro.
Con queste sue opere Federico avvia un dialogo con un materiale complesso da utilizzare, ma che da il senso della durata.
Nell’immaginario collettivo, l’acciaio ha sempre rappresentato qualcosa di indistruttibile, impenetrabile, incorruttibile. La provocazione nasce proprio nel ribaltare la questione, come se l’artista intendesse proteggere le sue opere dal passaggio del tempo, a differenza dei murales, realizzati per essere corrotti, quasi per non esistere, qui in queste opere intende affermare il suo “Io sono”.
Le opere parlano dell’esistenza, volti di donne giovani, che sempre l’immaginario crede o almeno vuole credere incorruttibili dal passare del tempo, si scontrano con l’imperturbabilità della materia. Le vernici di Zenobi, graffiano la superfice dell’eterno per imprimere le sue donne. Donne belle, che solo l’artista può osare di rendere immortali, sfidando il naturale ordine delle cose, unico e grande nemico dell’uomo.
Questa è la sfida che l’artista lancia al tempo, un voler riappropriarsi di un qualcosa che gli appartiene, che la vita sfila di mano ogni istante che passa. Sotto il suo segno il tempo si modella, come nella teoria della relatività, si plasma al volere dell’artista che non solo immortala, ma scopre nuove dimensioni eteree.
La forza della materia rafforza il pensiero, l’acciao sottolinea così paradossalmente la fugacità delle immagini, la loro fragilità. La capacità tecnica dell’artista soccombe di fronte all’alchimia dei sensi che questa evoca: “nihil est in intellectu quod non fuerit prius in sensu”(1). E’ così in questo oblio che l’opera si concreta lasciando un forte segno della sua esistenza, lontano dai grandi spazi in una dimensione intima che solo l’io e la propria anima sono in grado realmente di cogliere.
Domenico Gioia
Note:
1-“nell'intelletto non vi è nulla che non sia stato prima nei sensi”
TOMMASO D'AQUINO, SAN (1225-1274)
Quaestiones disputatae de veritate: II, 3, 19
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