MATILDE PULEO , a cura di
Testi critici, Firenze, 13 March 2009
Le opere di Virginia López insinuano risposte emotive appese a quei sentimenti che sappiamo essere sempre in bilico tra nostalgia e malinconia. Richiamando le atmosfere della penombra o del quasi giorno, con superfici sempre luminose e trasparenti, queste opere sono avvincenti incursioni nel regno della variazione dell’impercettibile e del provvisorio.
L’artista raggiunge questi risultati cancellando i dettagli di superficie troppo aneddotici e puntando all’essenza. È così che scopriamo che un corpo non lo si ha. Che un corpo lo si è con tutto quel che di memoria e di storia esso pur portandoselo inciso addosso è sempre pronto a dimenticare o a perdere. Con un’intensità visiva trattenuta e quasi implosa, López decide allora di chiudere e spesso di filtrare ciò che può andare perduto e con un processo pittorico che ne offusca la visione, lavora allo scopo di preservare il segno di esistenze che si direbbero ridotte al minimo. La testimonianza del corpo lasciata sull’opera è quindi diretta ma mai invasiva; tessuta da trame complesse in cui prendono parte l’uso della cera (a racchiudere e proteggere l’eccessiva esposizione del corpo), della gomma bicromata, di oggetti reali e del pennello su superfici dipinte o fotografate. Il tratto gestito con astuta circospezione, non esagera né ostenta e quindi l’immagine che appare si svela solo ad uno sguardo più attento.

In questa ultima ricerca la meditazione sulla vita come passaggio e attraversamento è ancor meno fermo e compiuto che in passato. L’attenzione rimane puntata su ciò che rimane del passaggio del tempo, su ciò che continua ad esistere, ma che deve essere protetto e salvato. In questa nuova serie di lavori compaiono dunque giovani uomini e donne ai quali l’artista concede di vestirsi autonomamente, svincolandoli da ciò che rappresentano e lasciandoli vivere nel fragile tempo della memoria. Attori o martiri di altri tempi, per questi personaggi non ha importanza quale sia il nodo da sciogliere, il nesso trainante, la sorte della rappresentazione o il dolore sofferto. La loro destinazione finale è ancora da stabilire e quindi essi, nel frattempo, possono se vogliono, trasgredire non solo ciò che l’osservatore vi proietta, ma anche ciò che essi stessi chiedono alla loro storia.

Lontana da qualsiasi carattere narrativo, queste immagini non raccontano che per frammenti. Compare così il bianco distribuito sul plexiglass che come un sudario avvolge e tutela le figure; appaiono i colori dello sviluppo fotografico con le loro atmosfere sognanti e un po’ retrò e ancora oltre, aleggia la malinconia emanata dalla lettura appassionata di Pessoa e il ruolo assegnatogli di cospargere le sue parole sui contorni mai pienamente definiti di queste figure. Questa dimensione sognante che facilita la dolcezza di certe sfumature lascia spazio anche ad un’altra serie di elementi compositivi realizzati nei due modi più consoni al lavoro: sia per sottrazione di corpo e quindi tramite impronta (ad esempio, di forbici e filo spinato); sia per aggiunta materiale di corpi reali come il fil di ferro. Livello di composizione quest’ultimo, che libera il lavoro di Virginia López dalla dilatazione eccessiva dei toni delicati e lievi portandola verso esiti più patetici che impediscono che il rapporto con l’esterno abbia luogo. Una composizione meditata quanto basta per lasciare l’artista fedele al proprio immaginario e consapevole del proprio cammino.
Matilde Puleo

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