Testi critici, Roma, 24 April 2009
Tempus fugit


Fugge il tempo, e la scia di questa sottrazione è un colore, o appena il fantasma di forme che ci si lascia alle spalle, che sfila via lungo la coda degli occhi e si rapprende in un turbinio del ricordo, o della sensazione. È il passare di un momento che ha colto sguardi inconsapevoli e distratti, e di cui non si sono mai più posseduti i riferimenti, ma pure ancora riecheggia e suggestiona, pare sfocatura della misura e dello spazio in un movimento veloce. La fotografia di Claudio Orlandi qui raccoglie visioni che sono anche itinerari di scoperte e poi di smarrimenti, cascami di solitudini nebbiose da cui procedono gli orizzonti come onde, sono viraggi e addizioni fra strascichi di luce, sono il rumore visibile del respiro quando si osserva il mondo che scorre inafferrabile dietro il finestrino delle vite ferme.
Per questo gli scatti di Orlandi rompono i confini dell’ambientazione, quindi dell’oggettivazione pura e semplice, e si adeguano piuttosto alla dimensione intimistica e raccolta, quasi onirica e simbolica, della rappresentazione, della messa in scena, laddove lo scorrere via delle esperienze e dei momenti – la sua distanza – prende come surreale sospensione e paradosso la lastra apparentemente stabile dell’immagine. La fuga dinanzi all’obiettivo di alberi e costruzioni, l’indistinto fondersi delle prospettive, la vibrazione dei colori, il sussulto delle forme, tutto ciò che di non predisposto, o di accidentale rimane ad impressionare l’occhio e l’emozione, non è solo traccia di spostamento nello spazio – ché come tale è per l’artista solo grezzo spunto inventivo – ma piuttosto rimane come eccedenza di un ritmo e di un parossismo, il segno riconoscibile ed incerto della vita che trascorre, appunto del tempo che passa via e rapisce le definizioni ed i contorni, altera la successione dei piani e degli istanti, trasfigura le atmosfere e ridisegna paesaggi.
Si stabilisce allora un misterioso fascinoso equilibrio fra lo spleen introverso delle visioni spopolate e sospese, delle campagne delle luci radenti delle strade polverose, e quindi delle atmosfere inattuali e perdute, e l’inquietudine che è tutta moderna, quasi già metropolitana, del dinamismo con cui le immagini si accavallano e si disperdono, le une sulle altre, le une nelle altre. L’intervento tecnico che rinnova apparenze, condizioni e tinte al mondo, la manipolazione demiurgica con le evidenti irreali esasperate sue licenze, esercita allora la tensione di contrappeso in questo complesso bilico, ora accentuando lo sconfinamento fantastico ed illusorio; ora, ed al tempo stesso, dichiarandone senza mitigazioni l’inganno, o forse meglio, l’utopia. Il risultato sono queste immagini ambigue e consistenti di una realtà remota, chissà un gioco, o una chimera, una sfacciata bugia ed un pietoso sotterfugio per tentare di levare al tempo rapitore un brandello della sua preda.

(francesco giulio farachi)

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