Un dialogo tra Stefano Moriggi e Gianluca Nicoletti
a cura di Andrea D’Agostino
Ho avuto la fortuna di assistere a un dialogo improvvisato e a tratti surreale tra Stefano Moriggi (filosofo della scienza) e Gianluca Nicoletti (giornalista appassionato di tecnologia). Erano entrambi davanti a un quadro di Salvatore Scafiti, “L’albero della gomma”, e si sono scambiati pensieri e impressioni. Non sono due critici d’arte, e proprio per questo ritengo che le loro riflessioni possano offrire un punto di vista sicuramente più originale e perché no, provocatorio, a chiunque si avvicini per la prima volta alle opere di Scafiti e ai suoi “corpi riscritti”.
(A. D.)
Stefano Moriggi
L’opera di Salvatore Scafiti esibisce tutti i tratti tipici di un’avanguardia culturale, prima ancora che artistica. Lontana dall’ideologia programmatica di un manifesto, non auspica mondi futuri né preconizza scenari apocalittici, ma ha il raro merito di farsi carico della logica della contaminazione di tecniche e saperi come esperienza di ricerca. Seguire la sua produzione significa vedere prender corpo e colore la volontà di riscattare l’arte da manieristici solipsismi e da facili scorciatoie informali per tornare a raccontare la natura e l’imprevedibile evoluzione delle sue forme.
E Scafiti sa bene che una prospettiva privilegiata per comprendere oggi la natura, in particolare quella umana, non può prescindere da uno spregiudicato confronto con la tecnologia, che in modo sempre più pervasivo riscrive modi, tempi e contenuti delle nostre esistenze e delle nostre società. Inoltre, lo sguardo metamorfico che traspare come costante metodologia nel suo approccio al mondo, mette l’artista al riparo da languidi moralismi e profezie apocalittiche. Al contrario, gli consente di smascherare equivoci diffusi e pericolosi. Per esempio, la riscrittura tecnologica del corpo – che ne L’albero della gomma trova una delle declinazioni più efficaci della pittura di Scafiti – mette in luce l’infondata speranza di voler individuare una salvifica demarcazione tra artificiale e naturale a cui affidare una volta per tutte un’idea di uomo, di bene, di legge. Il margine è esso stesso culturale, e in quanto tale viene costantemente riscritto. È proprio in queste continue ridefinizioni che si riplasmano coordinate e valori, convinzioni e credenze, le quali non meno di macchine e strumenti sono il risultato di un lungo ragionamento che racconta l’intreccio selettivo di natura e cultura.
In virtù di questa consapevolezza, Scafiti ha individuato nella tecnologia lo specchio in cui cogliere il più limpido e cristallino riflesso dell’umano, oltre che quell’orizzonte di significati in cui ritrovare un corpo pulsante dell’arte, che finalmente riprenda vita risorgendo da un panorama di lugubri mugugni e strazianti lamenti di chi ancora insegue – in arte, ma non solo – la rassicurante illusione di uno stato di natura.
Non so tu che pensi, Gianluca, ma mi convinco sempre più – e questa mostra corrobora la mia congettura – che un rapporto meno ideologico e prevenuto con scienza e tecnologia farebbe solo bene tanto al mondo della ricerca filosofica e antropologica, quanto a quello di molta critica d’arte contemporanea che in certi ermetismi linguisti pseudofilosofici, o in altri voli ermeneutici cripto psicologici, ostenta solo la lontananza da un mondo ripetutamente riscritto di cui sempre più a fatica riesce a comprendere l’alfabeto.
Gianluca Nicoletti
Lascio ai critici la libertà e la responsabilità di riassettare (o meno) i loro ferri del (loro) mestiere in base evoluzioni e alle trasfigurazioni di parametri e categorie che la tecnologia da sempre impone, certo è che non fatico a intuire nelle opere di Scafiti alcuni segnali profetici. Sono pensieri che possono anche atterrire gran parte dei nostri simili, proprio perché hanno a che fare con dei sinistri connubi tra risulta di materiale umano e vecchi copertoni: il cadavere di pneumatico è sempre stato inteso come il re degli immondezzai, il fumo denso che genera se incendiato è il segnalatore tossico più forte quando una discarica è aggredita dalle fiamme. Allo stesso tempo è il moderno simbolo di martirio quando viene bagnato di benzina dai neri delle suburbie del Sudafrica e messo come collare di fuoco ad altri neri sospettati di simpatie verso i bianchi, che per questo sono fatti ardere con quei copertoni al collo.
Non a caso, proprio L’albero della gomma a cui tu fai riferimento è attraversato da radici che sembrano quasi affondare in materiale organico; attingono sangue da una forma umana che è scomparsa, quel che ne rimane è una muffa antropomorfa di scuoiato, reliquia che in sé ha qualcosa di mistico, sembra presa da una di quelle iconografie di antichi martiri che portano come trofeo la loro pelle al collo. La muta di un rettile è tutto ciò che rimane di un’antica umanità, solo la parvenza di un’armonia umana superata, di un corpo come ce lo ricordavamo noi. Qualcosa di ammuffito, come la crisalide di un piccolo insetto che fosse stato risucchiato del midollo da un aculeo proboscidato di un altro, più grosso e vorace. Ora è abbandonato a disseccarsi su quel ramo, come qualcosa che non ha più diritto di appartenere al presente.
Ogni albero semovente di Scafiti ha muscolatura e nervi, vasi sanguigni e viscere come un'antica tavola anatomica deturpata da interventi di pudibonda censura. C’è un evidente momento di passaggio, in cui forte e caotica si avverte la ribellione verso gli elementi cosiddetti naturali: un albero che affonda la sua vitalità e rinasce, quasi come una fenice, da quella risulta d’umanità. Le sue forme lignee sono un ricordo di membra come se l’innesto che è stato fatto in questa pianta non fosse quello di un altro albero fruttifero, ma piuttosto quello dell’antica specie umana ormai decaduta, non più esistente. È un albero glorioso che alza le braccia al cielo, perché in fondo è vittorioso.
Mentre su un ramo si porta quel fardello di vecchia pelle morta, su un altro risorge un arto quasi accennato, quasi reduce dall’incontro con un gesto di creazione. Comprensibile caos tra organico ed inorganico, naturale e artificiale come osservi anche tu. Siamo di fronte a un groviglio di animale e vegetale, con nell'aria ancora la luce rossastra del fall-out che ha segnato la fine di quella che era percepita come umanità. È l’esplosione della fine, ma anche il Big Bang di un microcosmo da cui ci si attende l’accenno a una nuova fase dell’evoluzione, in cui non esiste più pregiudizio tra ciò che sia albero, ciò che sia carne, ciò che sia gomma, silicone. L’inizio di un mondo in cui gli oggetti con cui ci sentiamo “naturalmente” fatti, corrispondano agli oggetti con cui ci stiamo lentamente ricostruendo.
S. M.
Alla luce di quanto dici, gli alberi di Scafiti – sofisticate variazioni sul tema di una mutazione inesorabile – sono alberi genealogici: raccontano la nostra storia passata, lasciando intravvedere possibili scenari futuri. Incarnano, nella loro dinamicità, la metamorfosi in corso. Ma, come si accennava, senza entusiasmi progressisti e senza anatemi apocalittici, e facendo a meno di anacronistiche sovrastrutture e retaggi passatisti che ancora sostanziano tesi e profezie (laiche e religiose) che vivono, con beata ingenuità o consapevole malizia, l’indebita sovrapposizione tra l’essere e il dover essere – o in altre parole, tra il piano descrittivo (della scienza) e quello normativo (dell’etica). Equivoco che se già agli occhi di qualche filosofo inglese della seconda metà dell’Ottocento era foriero di “cattivo gusto, di falsa filosofia, di falsa moralità, e persino di cattive leggi”, per Scafiti rappresenta anche il rischio di un’arte fatalmente sottomessa all’ideologia.
L’evoluzione testimonia l’emergenza di una complessità in cui natura e cultura si condizionano a vicenda. E in questa logica, che Scafiti implicitamente fa propria nelle sue opere, la diffidenza per l’artificiale viene riassorbita in quella graduale successione di forme che scandiscono le riscritture dei corpi e del mondo. Quest’arte che si riconcilia, nei metodi e nei contenuti, con la scienza e con la tecnologia, e che nelle loro pieghe sa cogliere l’alfabeto con cui provare a ricomporre in figure il romanzo del nostro fenotipo, consente in realtà un’ulteriore riflessione sulla pregnanza antropologica di strumenti e dispositivi che sempre più costituiscono un corredo irrinunciabile della nostra quotidianità. Per alcuni sono solo protesi, propaggini più o meno invasive che ottimizzano o potenziano le nostre facoltà, fisiche o mentali. Tutto qui? Siamo sicuri che siano solo protesi aggiunte alla nostra “macchina biologica”?
Ho la sensazione, caro Gianluca, che Scafiti non si discosti molto da un’idea a noi cara per cui ogni protesi, ciascuna a sua modo, comporti una profonda riscrittura della stessa possibilità di abitare il mondo. È una riscrittura della percezione del proprio corpo, della propria carne; una riscrittura della percezione dello spazio e del tempo, con buona pace di Kant e kantiani di ieri e di oggi. È una riscrittura delle relazioni sociali e delle categorie più o meno sofisticate con cui cerchiamo di orientarci nell’ambiente di cui siamo parte.
La tecnologia, quindi, aggiorna costantemente la grammatica e la semantica delle nostre esistenze, e quindi se qualcuno volesse azzardare una risposta aggiornata al celebre quesito che la Sfinge pose a Edipo, difficilmente sarebbe plausibile se cercasse di spiegare cos’è l’uomo avvalendosi di una qualche pretesa demarcazione tra natura ed artificio.
G. N.
Quanto dici mi consente di aggiungere qualche riflessione su un motivo ossessivo delle opere di Scafiti, che è quello della ruota evoluta. Io vedo le sue ruote come fase finale dell'esistenza di un oggetto che simbolicamente è stato sempre rappresentativo della velocità, della dinamica, della possibilità di coprire spazi esasperati rispetto alla pura capacità muscolare.
Spesso Salvo raffigura ruote di automobile consunte e obsolete, quasi fossero l’humus in cui alberi fantastici affondano le loro radici: orpello di un passato che non ha più ragione d’essere rappresentato da un’avanguardia. Non lo dico a caso e tu stesso esordivi infatti con un opportuno richiamo all’avanguardia associato alle opere di questa mostra. Se ci pensi, l’immagine dell’automobile in corsa fa parte ancora di questa coda stiracchiata dell’avanguardia futurista, sempre più passatista per troppa nostalgia. Ogni celebrazione dello spirito marinettiano rammenta come all’inizio del secolo scorso si sia profetizzata una civiltà come la stiamo vivendo ora: fatta di movimento, di velocità, di aggressività. Ma in realtà, tutto questo fa ormai parte di una logora retroguardia. L’automobile in corsa non rappresenta un momento di rottura, rappresenta semmai la certificazione di una maniera arcaica di concepire lo spostarsi nello spazio, nel tempo, o nel dare una caratteristica più che umana alla propria vita quotidiana.
Chi si affida all’automobile è il grezzo, il burino, colui che ha ancora quest’idea che quell’oggetto incarni uno status potente. Chi va veloce al volante si va a schiantare; le strade sono troppo intasate di automobili, simbolo soffocante di una fastidiosa occlusione dei nostri spazi vitali. Dell’automobile in corsa, che è più bella e splendente della Nike di Samotracia, non rimane che il vuoto copertone. Non c’è più un cerchione, non c’è l’albero di trasmissione, non c’è il mozzo, non c’è il motore: non c’è più niente. Come un teschio dalle vuote occhiaie che una volta conteneva la coscienza di un umano.
Ciò che ancora rimane valido di questo copertone d’auto è la sua composizione: la gomma, che rappresenta nella catena evolutiva degli oggetti, il protogenitore di quello che oggi sono i polimeri artificiali. Un elemento, in fondo, naturale ma che permetteva di plasmare e costruir prodotti che avessero una durata nel tempo, una resistenza, con delle caratteristiche che prima nessun artefatto aveva avuto. Dalla gomma si passa velocemente all’idea della sostituzione e della replicazione, all’idea di una materia che sfidi quella di cui sono composti gli uomini e i manufatti più “naturali” degli uomini. Inizia l’epoca delle materie plastiche, la meravigliosa promessa dell’eternità, della purezza e del nitore dell’indissolubile, della sfida al tempo e all’incorruttibilità.
Tutti vorrebbero qualcosa di plastico accanto, perché è più facile da usare, leggero bello eterno e colorato. Tutto la nostra rinascita dopo l’orrore della guerra mondiale, nasce dal culto della plastica. Tu sei troppo giovane, ma io ancora ricordo di quando Gino Bramieri pubblicizzava il Moplen. Bello, resistente, stupendo; catini, pitali, vasche da bagno, oggetti per la cucina. La cucina di plastica, di formica che le mamme barattavano con ogni precedente mobilia perché facile da lavare. Un materiale che la faceva faticare meno, e che quindi già in se si proponeva come una protesi che evitava alle donne alcune condanne del menage domestico: pulire, lucidare, dare l’olio o dissimulare le macchie del tempo. Chi era giovane negli anni Cinquanta si cominciò ad accorgere che sulla plastica il tempo non lascia alcuna traccia. Le nipoti di quei giovani avrebbero poi cominciato a mettersi la plastica al posto della carne.
S. M.
Certo, nella celebrazione di un’avanguardia c’è qualcosa di fortemente contraddittorio che va ben al di là dell’opportunità di una ricorrenza. Forse non c’è peggior dispetto che si possa fare a un movimento che si proponeva come avanguardia che ricordarlo, condannandolo alla dimensione temporale che meno gli si addice, il passato. Difficile dire se Marinetti e gli altri avrebbero gradito o meno. Ma forse un modo per celebrare un’avanguardia nel suo prepotente afflato verso il futuro è quello di essere un’avanguardia, o per lo meno di intercettare nel presente segnali e tendente che aprono nuovi orizzonti di senso e di pensiero. È proprio in questo senso che all’inizio sostenevo che nelle opere di Scafiti – quelle esposte in questa mostra, ma non solo – mi pareva di intuire tutti i segni tipici di un’avanguardia culturale. Scafiti, come accennavo, ha compreso la simmetria tra i nostalgici della natura e gli entusiasti del post-umano. Due ideologie simmetriche, distinte nei toni – più apocalittici i primi, più integrati i secondi – ma entrambi bisognosi di una forte idea di uomo o da riaffermare o da negare nei suoi potenziali superamenti e ibridamenti tecnologici.
In comune i due fronti, per affermare le rispettive posizioni, necessitano di quella demarcazione di cui si diceva. Senza di quella, non potrebbero proiettarsi ossessivamente verso scenari futuribili (oltre che futuristi), celebrando, per esempio, il trionfo della macchina in corsa contro il chiaro di luna; né tantomeno predicare il ritorno a ritmi e modalità dell’esistenza incentrati sulla presunta naturalezza di un mondo perduto – o come si dice (non a caso!) a misura d’uomo…
La gradualità delle mutazioni e delle interazioni con macchine e strumenti colta dagli alberi e dalle altre “creature” di Salvo introduce una dinamicità della visione che scalza i fondamenti di queste prospettive antagoniste in superficie ma poggiate su analoghe premesse e richieste. Il bisogno di un’idea precisa e definita di uomo da riaffermare o da superare è indice di una staticità dello sguardo che, se da un lato non può appartenere a un’ottica evolutiva, dall’altro è il palese contraltare di quei tentativi di demarcazione tra naturale e artificiale in cui ideologie conservatrici e progressiste cercano il subdolo appiglio a cui agganciare, con una qualche parvenza di legittimità scientifica, la distinzione del bene dal male, del lecito dal proibito.
E proprio nella reazione a queste letture del mondo che l’opera di Scafiti si fa avanguardia. Si intravvede in essa lo sforzo di essere e di capire la contemporaneità, assumendo quella “plasticità” del pensiero, che, se da un lato riceve da un sincero e schietto confronto con la scienza e la tecnologia, dall’altro gli consente di piegarsi sugli eventi e di comprenderli nella loro complessità.
Basterebbe soffermarsi, come del resto hai fatto anche tu, sull’apparente ossimoro che L’Albero della Gomma porta con sé: le radici che tradizionalmente danno l’idea della stabilità – tutti quelli che parlano di radici culturali hanno bisogno di fermarsi, di radicarsi in alcuni valori e contenuti condivisi, condivisibili e possibilmente non negoziabili – in questo caso prendono vita da una ruota, che invece è simbolo di movimento.
Per Scafiti, quindi, non c’è radice che non si muova, non c’è identità che non si riscriva, non c’è civiltà che non evolva. Cogliere oggi questa dinamicità di forme significa soprattutto confrontarsi con la tecnologia, non con la paura di perdere il senso dell’uomo, ma con la convinzione che nessun umanesimo è neppure pensabile al di fuori degli strumenti e delle macchine che ne denotano la fisionomia. Come tu sai, io sono convinto che noi non agiamo, e quindi non pensiamo, in maniera indipendente e indistinta dagli strumenti e dalle macchine con cui quotidianamente interagiamo. Ecco, all’interno di questa prospettiva, pratica e teorica al tempo stesso, noi siamo come gli alberi di Scafiti: abbiamo radici in movimento e futuri tutti da inventare e da riscrivere nella complessa interazione con quelle “protesi” che continueranno a rispondere con noi all’interrogativo che una qualche Sfinge dei tempi nostri potrebbe riproporci…
G. N.
Quello che dici lo condivido, e in qualche modo il mio ragionamento sulla diffusione della plastica conferma paure ed entusiasmi cui tu pure facevi riferimento. La prima grande promessa fu che la plastica avrebbe dato una grande felicità e un grande senso di eternità a ogni umano. Poco dopo ci si sarebbe accorti che la plastica, generandosi nella sua eterna indistruttibilità, non avrebbe lasciato spazio agli “umani”. Sacrosanto e inoppugnabile disastro ecologico, ma anche pretesto per annunciare una nuova prossima apocalisse da cui seguirebbe, appunto, la grande mistificazione delle esperienze “naturali”, scaturigine a sua volta di ogni pessima e rozza filosofia di mesta esistenza. “Abbiamo rapporti naturali”, dicono i bravi parrocchiani; “Muoviamoci secondo i ritmi naturali”, dicono i praticanti di ascesi corporea. “Devi essere naturale” dice la mamma alla concorrente del Grande Fratello.
Il fatto è che ogni diversa ricerca dello stato di natura in realtà ti stringe nella stessa catena. Devi ricordarti comunque qual è la legge eterna per cui ciò che è naturale è buono e ciò che è innaturale va condannato. Così tutti quelli che si vestono di cotonina, che fanno le meditazioni indiane, che orientano il loro letto secondo il “Feng Shui”, non sono in reale contrapposizione con quelli che si buttano per terra nelle processioni per madonne sanguinanti e si genuflettono improvvisamente a ogni frusciar di tonaca. Tutta gente che alla fine, per paura, preferisce farsi segare le appendici di curiosità che dovrebbero sempre esser lasciate crescere in pace.
In certi film di fantascienza il mondo si distrugge. Ne Il Pianeta delle Scimmie il mondo scomparso è rappresentato dalla Statua della Libertà di cui rimane soltanto la testa che viene erosa dalla battigia. In altri si vedono metropoli deserte perché devastate dalle catastrofi nucleari; dopo molto tempo spuntano piante, la natura si rimpossessa di ciò da cui è stata spodestata, e ricopre ogni artefatto umano. La natura si reinventa da sola e, senza fretta, si rimangia tutto. In questo momento, per me, la situazione più gioiosa sarebbe di abbandonarmi a questa deriva post catastrofe e vedere quanto possiamo anche noi, come questo albero, vedere spuntarci delle propaggini sulle macerie dei nostri sensi antiquati, dei nostri ricettori vecchi e ossidati che non riescono più a commisurare il mondo che ci circonda.
Le nostre protesi non siamo più noi a crearcele, non siamo più noi a sostituire l’orrendo moncherino che faceva dire in passato:“non c’è più la mano, devo farmi la manina di legno che assomigli a quella perduta”. Sarà un'orripilante manina di legno, triste come ogni pietoso simulacro che evoca nostalgia di una scomparsa. Tutti vedranno che quella mano è di legno, che è fittizia, e diranno: “Ah guarda tu, ti ha bastonato la giustizia divina, chissà cosa avevi fatto di peccaminoso con quella mano per cui ti è stata tolta”. Adesso al posto di questa mano potrò avere magari un meraviglioso arto telescopico che mi esce dal taschino. Non vedo l’ora che il mio corpo si espanda secondo un capriccio imprevedibile, voglio essere ristrutturato al di là di ogni progetto, umano e divino.
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