"Il viaggio" mostra personale di Giulietta Cavallotti 6-11 marzo 2010
Mostre, Roma, 06 March 2010
Diceva Maupassant che il viaggio è una specie di porta attraverso la quale si esce dalla realtà per penetrare in una realtà inesplorata che sembra un sogno. Ci domandiamo se anche “il viaggio” di Giulietta Cavallotti abbia come meta un “sogno”, se le sue opere pittoriche raccolte sotto questo titolo fuggano dalla quotidianità per penetrare ed abitare un paesaggio onirico ed ideale. E la risposta non è affatto immediata né evidente. Infatti le tele dell’artista romana qui esposte potrebbero sembrare nello stesso tempo un invito a rimanere per così dire con i piedi ben piantati sulla terra, ad osservare cosa accade intorno a noi, come se tutto ciò che ci circonda nel concreto fosse già di per sé materia abbondante e variegata di considerazione, di narrazione e di cronaca, senza necessità di mirare al mondo labile ed elusivo dell’immaginazione e della fantasia. Ma pure sono tele che sprigionano dal loro interno, sotto il dato realistico che le ammanta, vivifica e vivacizza, un sentimento a tratti indecifrabile di lirico afflato: un’ansia di cogliere ed esprimerci il percorso arcano che quei treni compiono nelle nostre anime: anime già in attesa sulle banchine di quelle stazioni.
“Il viaggio” della Cavallotti ha così due piani di lettura, né l’uno sopraffà l’altro ma l’uno si sviluppa in armonia e simbiosi con l’altro. Da qui i colori che diresti d’una fotografia fedele ed insieme d’un incanto interiore tutto melanconico; i segni tangibili e solidi di un segmento di metropoli, di un edificio, degli stessi incessanti binari, di un paesaggio innevato, che misteriosamente si trasformano ora in un’elegìa pudica, in un canto d’umbratile rinunzia, in un ritrarsi tacito e pudico dell’anima, ora in una sferza di energia, in una sorta di improvviso riscatto dalle sofferenze e dalle nequizie della vita che stanno in agguato e ci colpiscono alla cieca: o peggio, perfidamente preannunciate.
In tal modo ecco quelle stazioni dagli spazi deserti di gente ma come tacitamente sovraffollate da file interminabili di memorie tristi; e quelle luci crepuscolari che inondano e scompongono le mura, le architetture, le prospettive urbane per divenire il segno doloroso (e pur riguardoso) di un mal di vivere senza medicamento. Ma ecco altresì la violenza e la spirale di un tunnel spettrale , la folle sarabanda di un caos elettrico che fa da quinta a le cime dei grattacieli metropolitani, un’affastellato squarcio di rutilanti cartelloni pubblicitari a significare la sgangherata vanità e idiozia della nostra civiltà sul ciglio dell’abisso. Sono motti, simboli, ammonimenti di una straordinaria valenza espressiva, nella quale non c’è più il senso della mestizia anzidetta e dell’assenza ferale, bensì l’energica ribellione, in una cifra quasi scultorea, ad un mondo tanto svergognato e tossico quanto insulso e disumano.
Si parte e nello stesso tempo non ci si muove. Si sale sul treno ed il treno non parte. Si viaggia e si rimane bloccati dal perenne viluppo delle contraddizioni che ci immobilizzano e paralizzano i sensi. I binari giacciono là, ad uso e consumo di treni gettati via. Non voci, non fischi, non stridii…. Soltanto “soste”: al servizio del Nulla che s’alimenta nella propria stazione. Eppure osserviamo come talvolta il cielo risplenda d’un angiolesco azzurro. E’ sarcasmo? Beffa? Innocenza?.... Intanto giù si sta costruendo una nuova stazione. Domandiamo alla Cavallotti se siamo di fronte ad un’esatta copia delle giacenti, o a una nostra allucinazione, o a l’ineluttabile legge della Natura, la quale vuole che nulla perisca: anche se si tratta del Nulla.

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