Dancing with myself/ our article about the contemporary body
21 May 2018
(Cahun_Autoportrait Claude Cahun Autoportrait, 1929 Gelatin-silver print 42 x 34 cm Pinault Collection)

Come,come,my baby come
I will show you the world
Come ,come, my baby come
I will cover your nightmares

Jain -Come

Dalla presentazione della mostra: “Dancing with Myself indaga l’importanza primordiale della rappresentazione di sè nella produzione artistica dagli anni ’70 a oggi e del ruolo dell’artista come protagonista e come oggetto stesso dell’opera. Attraverso un’ampia varietà di pratiche artistiche e linguaggi (fotografia, video, pittura, scultura, installazioni…), di culture e provenienza, di generazioni ed esperienze, la mostra mette in luce il contrasto tra attitudini differenti: la malinconia e la vanità, il gioco ironico dell’identità pare l’autobiografia politica, la riflessione esistenziale e il corpo come scultura, effigie o frammento, e la sua rappresentazione simbolica.”

Il bello di un evento eccezionale è che è eccezionale, e un evento i riproposto ogni anno non ha più niente di eccezionale” ha detto Martin Bethenod, Direttore e Amministratore delegato di Palazzo Grassi/Punta della Dogana annunciando le nuove mostre di palazzo Grassi e Punta della Dogana dopo Damien Hirst. Pure, entrando in palazzo Grassi, l’assenza dell’enorme statua di Hirst lascia come un senso di vuoto, di spoglio.

Partiamo dal fatto che apprezziamo la scelta curatoriale di Punta della Dogana. Lì si parla di corpo d’artista, della vanità dell’artista e dell’uso simbolico di se stessi. Pur essendo una mostra già in parte presentata altrove, di certo ci troviamo di fronte a molte aggiunte. Rispetto all’uso continuo, modaiolo, dell’altro da sé, a cui abbiamo dedicato molti scritti, qua finalmente si parla di sé, senza infingimenti. Non è una cosa banale. Non c’è nemmeno un autoritratto nel senso classico. Il corpo è raffigurato, fotografato, scolpito, ma non è il soggetto della rappresentazione. Sono 32 gli artisti rappresentati, tra loro Marcel Bascoulard, Marcel Broodthaers, Damien Hirst, Giulio Paolini si aggiungono a quelli già presentati a Essen nel 2016.

Ci si ferma sulla soglia dell’epoca digitale. La mostra in sé s’inscrive in un periodo, con alcune fuoriuscite temporali come la surrealista Claude Cahun (1894, Nantes, Francia – 1954, Saint Helier, Jersey), in cui, pur essendo già stati espressi alcuni dei fondamenti teorici, assunte molte intuizioni su quella che è la nostra condizione attuale, il corpo poteva comunque continuare ad essere usato come luogo di frontiera politica, di genere, di fragilità. Non ancora, o non pienamente (forse solo come allusione o suggestione) come applicazione di una cooperazione possibile attraverso le tecnologie, con tutte le conseguenze sia conservative che creative che questo comporta.

In fondo già Benjamin aveva ipotizzato, riferendosi alla possibilità di aumento di potere della vista dato dalla fotografia, l’inconscio ottico. Non occorre risalire al Freud del Disagio della Civiltà, con la definizione di tecnologia come protesi che l’umanità ha sviluppato per allargare i propri poteri, basta il caro Vaccari, che nei ’70, dichiarava allegramente che “l’apparato fotografico ha autonoma capacità di organizzazione delle immagini in forme simbolicamente strutturate”. Stiamo in questa mostra al limitare della mutazione del corpo, laddove ancora ognuno poteva immaginare d’avere un’identità singola da indagare, da rapportare con gli altri e con la società nel suo complesso. Nasceva, contemporaneamente, una sorta di sussunzione, dove questa identità si moltiplicava ampliata, per certi versi svuotata riportandosi a luoghi, memorie, corpi esterni e complici.

C’è anche una delimitazione formale. Non c’è Fluxus qua. Pur essendo rappresentate delle pratiche performative, non c’è quella idea del corpo come “spazio per soffrire, per sentire tutto il complesso dell’emotività, della paura, dell’angoscia” (Gina Pane). I corpi esposti a lungo sono più ironici che sofferenti. I fluidi rimangono nascosti, la sensualità viene allusa, nessun Chris Burden si fa sparare a un braccio.


Si verificano le potenzialità del corpo. Bruce Nauman in Lip Sync cerca di sincronizzarsi con un audio che sente in cuffia e che ripete sempre la stessa frase del titolo. Però dopo un po’ non ci riesce più ed aumenta gli errori. Ulrike Rosenbach si chiede, con “Non credete che io sia un’amazzone” – 1976- quale sia il suo ruolo sociale in quanto donna e donna artista. E se i limiti imposti dalla società alla fine li avesse interiorizzati?

Gilbert&George ritengono la loro stessa vita immediata un’opera d’arte. Qua ci sono le famose foto su vari supporti,che ricordano le vetrate di una chiesa chic. Ma anche il povero Paulo Nazareth ritiene la stessa cosa, solo che la sua vita rappresentata è un viaggio dalle favelas a New York con tutti altri esiti.

Feliz Gonzalez Torres apre la mostra con delle tendine fatte di file di sfere rosse e bianche, che vanno attraversate per accedere a Punta della Dogana. Stanno per la malattia e la morte del suo compagno e il dolore suo, causati dall’Aids, in un contesto intersoggettivo che si completa solo con il nostro coinvolgimento. Alighiero&Boetti si presenta in una statua-autoritratto nella quale con una pompa si butta acqua sulla sua testa. Quest’ultima è riscaldata e crea vapore, che sale continuamente. Così rappresenta ironicamente sia il processo creativo dell’artista che la sua malattia (sarebbe morto poco dopo per un tumore al cervello). In ogni caso, per la scelta di modificare il proprio nome, sta sempre lì a mettere in discussione l’identità singola con-chiusa, a favore della molteplicità del soggetto.

Cindy Sherman inscena ogni tipo di stereotipo con travestimenti grotteschi, sgretolando le fondamenta sociali dell’identità femminile, svelando comunque come ogni identità sia artificio. In tal senso le prime immagini lasciano intravedere il cavo dell’autoscatto che rivela la mesa in scena. D’altra parte Martin Kippenberger, con il travestitismo, mette in piazza personaggi androgini, stati emotivi ed identità sessuali fluide.

Non ci sono conclusioni da trarre qui, forse qualche impressione. Non è possibile in quanto non siamo osservatori neutrali, non è una sorta di sviluppo della storia dello spirito, in cui crescono via via esperienze più mature, in uno strano luogo e tempo omogenei, che ci permetta di tirare delle somme. Non è mai stato così: senza un ritorno all’idea positivista ottocentesca non è possibile considerare il manierismo l’evoluzione del barocco, il rinascimento non è meglio del medio evo. L’evoluzione teorica e pratica si sviluppa con l’aumentare della potenzialità tecnologica, ne viene influenzata e l’influenza, nel contesto del Mercato in cui ogni espressione è immersa. Altrimenti dovremmo ipotizzare che davvero Nauman fosse così in bolletta da non avere nulla con cui lavorare nel suo studio e dunque per questo usasse il suo corpo. E che la differenza tra un suo video e uno contemporaneo sia solo di migliorata definizione della ripresa. E’ un processo più complesso in cui tutto si tiene, senza nostalgie.


E quindi, mentre in nostro Dna si modifica in base a questo processo, qua testimoniato agli albori, possiamo notare un cambiamento progressivo nell’uso del corpo. Innanzitutto del supporto, del medium su cui viene impresso. Nel senso che progressivamente la tecnologia prende sempre più sul serio se stessa. Il corpo dell’artista diviene un contenuto espressivo, uscendo dalla rappresentazione immediata di se stesso. S’interroga sulle proprie relazione con altri e vuole fare bella figura. Dunque imbelletta la propria immagine, sempre più ricercata. Dalle foto degli anni 70 a quelle di questo secolo il cambio, appunto, non è solo tecnico, ma anche di coscienza. Anche nel voler affrontare gli stessi temi.

L’ironia si diluisce e spezza in due rivoli. Sempre più si trovano o figure molto serie, molto prese nel proprio ruolo, molto consapevoli oppure si passa alla burla, volendo anche sguaiata alla Cattelan, al paradosso divertente o straniante.

La speranza è che davvero, come detto dal curatore, la prossima stanza di questo strano e ricco museo etnografico, di questa collezione, sia quella dell’attuale, per vedere cosa ha portato di nuovo e bello nell’arte questo rinnovato Mercato, dopo la sua ennesima crisi, relazionandolo con questa mostra, se avrà ancora senso farlo.

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