Ruggero Savinio e la poetica del
02 August 2012
Due opere esposte alla GNAM di Roma fino al 27 maggio del 2012. A sinistra "Viaggio di nozze" a destra una "Conversazione".-



Ruggero Savinio e la poetica del “non finito”


Vidi per la prima volta le opere di questo straordinario artista nell’estate ormai lontana del 1989 in Sicilia a Sciacca presso l’ex convento di San Francesco. Mi colpirono e influenzarono molto anche nei miei primi approcci alla pittura (avevo iniziato a dipingere da quattro o cinque anni). Solo molti anni dopo trovai il coraggio di scriverle una mail all’indirizzo di posta del suo sito internet ufficiale; non ebbi mai risposta, ma non importava, quello che contava era esternargli i miei ringraziamenti per il suo lavoro e per le emozioni che era riuscito e che riesce a trasmettermi. Davanti alle sue opere mi sentivo bene, mi trasmettevano uno stato di grazia che poche altre volte ho provato davanti a delle opere d’arte, su di me avevano ed hanno un effetto terapeutico.
Ruggero Savinio (Torino,1934), figlio di Alberto Savinio e nipote di Giorgio de Chirico è pittore con cromosomi importanti. Pittoricamente nasce a metà degli anni ’50 in pieno periodo Informale e questo è fondamentale per il suo successivo sviluppo artistico.
Le sue sono opere magiche, e, questa magia è il filo conduttore di tutto il suo percorso che si snoderà nei decenni successivi toccando temi mitologici: le ninfe, le muse, la serie dell’età dell’oro. I paesaggi con rovine che rievocano i fasti di antiche civiltà (come quella egiziana o romana) o ancora semplicemente a temi che riportano al vivere quotidiano e nello specifico alla vita famigliare dell’artista: come la serie delle “Stanze”, un’altra bellissima serie è quella delle “Conversazioni” con un richiamo simbolico alle sacre conversazioni, dove il tema a mio giudizio è principalmente “La coppia”, quindi il dialogo tra l’uomo e la donna, la famiglia, infatti a volte appaiono anche dei bambini all’interno di questi lavori. Sono conversazioni silenziose dove tutto è sospeso… il tempo, i gesti, le parole. Parlano del vissuto quotidiano in cui ciascuno di noi potrebbe ritrovarsi oltre che perdersi – metaforicamente – dentro la bellezza di queste composizioni screziate, dove i soggetti più che disegnati sono suggeriti e si staccano dal fondo del dipinto attraverso l’uso di un contorno che li rende magici e che allo stesso tempo li incornicia sottolineandone l’importanza e creandole un’aura di mistero. Il colore è trattato per tocchi, striature, filamenti, punti, virgole, ghirigori ed anche colature. E’ un colore sontuoso, pieno e soprattutto materico. C’è sicuramente la lezione di Pierre Bonnard e forse ancor di più quella di Edouard Vuillard – con le sue intimistiche scene domestiche – questo per quanto attiene la bella serie delle “Stanze“ o la serie de “La Molla”; mentre per le “Conversazioni” l’apparentamento più prossimo è quello con Georges Seurat. Ma il padre nobile di questa schiera di grandi artisti è italiano e si chiama Giovanni Carnovali detto il Piccio genio forse ancora poco compreso oltre che poco conosciuto dell’Ottocento. Pittore grandissimo ed altrettanto grande disegnatore. Il Piccio pittore girovago amante dell’acqua e che nell’acqua morirà annegato. Per certe soluzioni così ardite per la sua epoca si può dire che anticipi di cento anni la pittura informale –quindi molto prima del francese Jean Fautrier- ovviamente partendo da presupposti del tutto diversi da quelli del francese e forse non del tutto consapevole delle sue innovazioni.
E’ Ruggero Savinio stesso a ricordare in uno dei suoi libri che il padre quando lo lodava con gli amici soleva spesso dire… “Lui disegna come il Piccio”.
Quello che fa grande la sua pittura è il suo tentativo perfettamente riuscito di essere allo stesso tempo classico e moderno, formale e informale, magico e misterioso, astratto e realista.
Il suo tratto distintivo è quello di erodere la forma, di consumarla, di farla e disfarla incessantemente per giungere al cuore dell’immagine che nella sua opera coincide con la continua costruzione e distruzione della stessa, tenendola così in equilibrio tra la sua sparizione e il suo manifestarsi. E’ in questo velarsi/svelarsi che la sua poetica acquista lo spessore della grande pittura, carica com’è del fardello di oltre duemila anni di storia dell’arte occidentale.
In conclusione, le sue opere sembrano apparentemente non finite, in realtà quello che noi vediamo è il risultato di questa incessante lotta tra luce e ombra, tra disegno e colore, tra segno e macchia, tra sottrazione e addizione o magari usando un termine che è proprio della scultura tra mettere e levare.
E’ l’equilibrio in punta di pennello che egli con estrema perizia riesce a trovare tra questi dualismi
che rende queste opere finite, complete, dove non è più possibile aggiungere o togliere niente senza rischiare di far franare il tutto.
Da ultimo, vorrei suggerire a tutti coloro i quali avranno la voglia e la costanza di leggere questo scritto fino in fondo una riflessione:
se non potete visitare una sua mostra, chiudete gli occhi e immaginate per un attimo, per un attimo soltanto che tutto quello che ho fin qui detto accada sotto cieli bellissimi che hanno il colore dei lapislazzuli e vi sentirete piacevolmente invasi da un senso di benessere, almeno questo è quello che succede a me ogni volta che visito una sua mostra o penso intensamente alle sue opere.



Sebastiano Parasiliti



Per info sull’autore dell’articolo: www.sebastianoparasiliti.it

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