Biografia
Più visibile del visibile, tale è l’osceno. Più invisibile dell’invisibile, ecco il segreto. Così scriveva Jean Baudrillard ne Le strategie fatali. Ragionando a proposito della nostra epoca e seguendo la traccia indicata dal filosofo francese, possiamo rileggere anche l’arte contemporanea, superando la dicotomia bello/brutto per approdare a criteri di valutazione meno scontati. Possiamo ad esempio accreditare come falso e superfluo un paesaggio bucolico dipinto fuori tempo massimo, tanto quanto trovare verità indispensabile in un grumo di pigmento abbandonato sulla tela, giacché nel particolare possiamo scoprire ben di più che oziando nei pressi di una cartolina idealizzata. Infatti: se tutti gli enigmi sono risolti, le stelle si spengono. Ma verità e bellezza non sono sinonimi, per questo affrontando l’arte pittorica così inquieta di Hermione Stavros occorre saper compiere uno sforzo, un’indagine elusiva che permetta all’osservatore di emanciparsi da ciò che vede, potendo anche rifuggendone l’impressione istintiva. Opere sommamente ingannatrici, quelle della Stavros – che dal nome maschile greco traduciamo non a caso in Croce – in grado di aprire e chiudere porte, in grado di lasciare in sospeso l’esito, con ciò alimentando curiosità e desiderio esplorativo.
Ciò che interessa maggiormente nell’arte non è infatti il visibile, effimero appannaggio degli occhi, bensì il puerile rovescio delle cose, quello che in Maldoror, Lautréamont descrisse come la metamorfosi: Il sangue si mescola alle acque e le acque si mescolano al sangue. Così è dei colori e della pittura in genere, quali elementi mercuriali nel reame della trasformazione. Infatti la pittura che senso può avere nell’epoca dei codici digitali e della riproduzione infinita, se non quello di farsi cerimonia sincretica ed abisso materico? Non c’è delitto di simulazione e la credibilità non è che un effetto speciale, sempre citando Le strategie fatali di Baudrillard. Manifestazione seducente perché fondamentalmente legata a ciò che sfugge – pulviscolo reso segno e forma - l’arte in questione trova coerente sintesi nel motto delfico Nosce te ipsum, dettame che permette alla Stavros di incunearsi attraverso un gioco di interiorizzazione nelle profondità del soggetto trattato, per poi renderne iper-dipinta la pubblica maschera. La destabilizzante parvenza, fustigata da accesi pigmenti, si sorregge su un’architettura anatomica assai solida, rilasciando così l’impressione che il quadro possegga una propria autonomia quasi golemica. Una credibilità intima sciolta in acido deliquio e resuscitata proprio nel martirio cromatico.
Successivamente ai ritratti, in gran parte riconducibili a personaggi borderline della pop culture, Hermione Stavros procede mutando leggermente l’approccio stilistico, di un nonnulla decisivo. A partire dall’opera The muse is not amused – quasi una versione postmoderna e “gotica” del Ritratto di Franz Liszt di Pelagio Pelagi - il pigmento stempera le turbolenze per placarsi in un ordine di vuoti funzionali ottimamente calibrato. Ipotesi confermata da La carne non è che uno spirito promesso alla morte, titolo dannunziano per una raffigurazione assai cara allo scrivente, dedicata com’è alla memoria di Marco Corbelli, tormentato pioniere modenese della musica industriale e quanto mai compianto “lost friend”. Qui il tratto pittorico s’ingentilisce umanizzando oltremodo l’iconografia autodistruttiva, caratteristica del soggetto, per farsi lattiginosa pietas orante. C’è insomma meno maschera, meno artificiosa flagellazione fluorescente, a tutto vantaggio di una resa espressiva che non esiteremmo a definire commovente. Gli unici occhi belli sono quelli che vi guardano con tenerezza, sosteneva Coco Chanel, ma pure Se potessimo vederci con gli occhi degli altri scompariremmo all’istante, secondo le ciniche conclusioni di Emil Cioran. Resta il fatto che qui la Stavros riesce a cogliere con grande tatto quel connubio “impossibile” di clemenza e sarcasmo che lo sguardo di Marco Corbelli nasconde.
In conclusione, a coronamento di un trittico scelto del tutto arbitrariamente, poniamo l’attenzione su Simulacra, tela che riesce a trovare incredibilmente un equilibrio forzando i limiti del cosiddetto buon gusto borghese. Mater dolorosa immersa nel liquido sacrificale, sia questo inteso come rubedo alchemico o come emorragia incontenibile, impone reazioni estreme marmorizzandosi ad un passo dal kitsch. Sangue, sangue, sangue fu l’epitaffio mistico di Caterina da Siena. Esasperazione che si pone nell’ottica di enfatizzare ulteriormente quell’attitudine barocca, berniniana, storicamente incentrata sulla teatralizzazione disciolta e fluttuante dell’elemento “passionale”, codice che divenne dogma estetico in seguito ai voleri della controriforma. Anche in questo caso la cifra contemporanea, ovvero il pesante panno purpureo pittorico, è funzionale all’alterazione voluta della figura; così facendo l’artista riesce a creare una dialettica ambigua con il soggetto religioso e con l’archetipo della donazione che caratterizza, nello specifico, la vocazione materna. Non vi può essere un oltre rappresentabile al di là di questo morboso punto di non ritorno: per un soffio ancora catalogabile nel potenzialmente devozionale, il dipinto della Stavros riconsegna alla Madre tutte le virtù dell’estasi riuscendo contemporaneamente a provocare nell’osservatore sgomento ed attrazione.
Donato Novellini