Biografia
Gli “ismi” dell’Ego
Giulio Manglaviti, reggino, venticinquenne, artista eclettico dedito alla pittura, scultura, fotografia e incisione, si affaccia all’arte contemporanea affermando il suo Egoismo.
Egoismo: “amore vizioso per se stesso, per il quale l’uomo tende solamente al suo utile”.
Ma è a questa definizione che l’artista guarda?
Esistono diversi Egoismi e oltre ad un amore sviscerato per sé stessi questo affetto è spesso una necessità per non cadere, per non lasciare che la realtà ci sovrasti e ci inglobi nei suoi meccanismi spesso incomprensibili. Serve Egoismo anche per darsi una possibilità, per prendere in mano la propria vita e dare forma alla propria arte, nonostante tutto.
L’amore per se stesso di Manglaviti è una lotta tra i valori secondari, materiali, di una società veloce nel dispensare giudizi e i valori primari di un Es che ha bisogno di essere espresso, conosciuto e fissato su una tela, su carta, su una lastra o assemblato, per affermare la propria costante presenza.
Nelle tele l’urgenza primaria è evidente nel gesto veloce che invade lo spazio, lo organizza in una composizione che ha sempre al centro un nucleo, un’isola, una cellula, una traccia di sé. Manglaviti ha poi l’esigenza di fissare una sua cornice pittorica, di proteggere ulteriormente il suo centro dai limiti del luogo pittorico, dall’esterno, dal reale. Una muraglia (forse proprio L’Egoismo?) protegge se stesso e ne permette l’autoaffermazione.
Lo sfondo sensibile delle sue opere crea un raccordo cromatico che unisce il centro alla cornice difensiva. Graffi, striature e incisioni sulla pasta cromatica rendono drammatica questa affermazione di sé eseguita da un lato con la velocità di un getto impulsivo ed energico, dall’altro tenendo in mente un ricorrente schema spaziale. Irrazionale e razionale, Giulio Manglaviti, ci offre una testimonianza di sé tramite tutte le sue opere appellandosi all’Egoismo ma non fine a se stesso, un Egoismo finalizzato alla realizzazione del proprio mondo interiore, che diventa motore e specchio del proprio fare.
Critica di
Caterina Pennestrì