Biografia
L’arte, in un’accezione forse astratta, ma vivissima nella mentalità più diffusa, è linguaggio universale che supera le differenze degli idiomi, avendo in tal modo la capacità di comunicare più di quanto potrebbero fare altre lingue. Deve credere fermamente a questa verità di popolo Alba D’Alpaos, venezuelana di nascita da genitori italiani, un’infanzia da giramondo, ormai da tempo radicata nel Bellunese.
Rivendica con decisione, la D’Alpaos, la propria scelta per un’arte liberata da condizionamenti troppo ideologizzati, una pittura che d’achitto potremmo definire di tendenza decorativa, e sbaglieremmo a farlo, non perché la decorazione non sia di per sé qualcosa di nobile, ma perché di altro si tratterebbe. è una pittura che nella superficie del quadro vuole subito mostrare e rivelare tutto quanto è in grado di dirci, graficamente, plasticamente, cromaticamente, per farci giungere solo in un secondo momento a un livello di approfondimento dei suoi significati, puntualizzando ciò che già a un primo impatto doveva essere stato intuito.
Discorsi a pelo d’acqua, quindi, corsivi, che ambiscono a comunicare per via essenzialmente empatica, ma niente affatto leggeri, inconsistenti, privi di una loro problematicità.
Alba D’Alpaos ha seguito una formazione assolutamente lineare, per certi versi esemplare, dal liceo artistico all’Accademia di Belle Arti, e gli esiti del suo lavoro non fanno che testimoniarlo. L’opzione figurativa, immunizzata dagli eccessi astrattisti, il gusto anacronistico per l’apparentemente non attuale, il riferimento continuo e costante ad una tradizione pittorica precisa, per quanto onnicomprensiva nella sua vastità, che spazia dal Rinascimento al Surrealismo, passando per la Secessione viennese, il Simbolismo (da Michelangelo a Caravaggio, da Tiepolo a Klimt, andata e ritorno) con qualche sporadica traccia d’Avanguardia, sono gli elementi più evidenti dell’arte della D’Alpaos, che ha alle spalle anche una lunga esperienza in ambiti di pratica artigianale come il ritratto su commissione, la copia di opere d’arte, la decorazione, la grafica pubblicitaria, tutti saperi che lei stessa considera condizione ineludibile dell’essere artista.
Senza conoscere l’arte del passato, con la sua sapienza tecnica, la sua potenza simbolica, la sua spasmodica ricerca della bellezza, non ci può essere l’arte del futuro, sembra volerci dire la D’Alpaos; ma la sua declinazione di questo assioma non è passivamente reverenziale, come si potrebbe sospettare, tanto meno ripiegata nel rimpianto del tempo che fu, ha anche il coraggio di trattare questo o quell’altro maestro reverito in maniera sottile e divertita, come quando, per esempio, ci rivela le ignote terga dell’Olimpia di Manet, associandola inevitabilmente alla Venere allo specchio di Velázquez, condendo però il tutto con un pizzico di concettualità magrittiana per la quale vedere il “dietro” di un’opera corrisponde, di fatto, a vedere un ”di dietro”.
La citazione dall’immenso catalogo della storia dell’arte non vale in quanto evidenza inoppugnabile, ma come rivisitazione in chiave di sensibilità personale, talvolta quasi a contraddire l’apparente armonia compositiva già conquistata, spesso carica di allusioni simboliche, come se a interrompere la regolarità del flusso fosse intervenuta una dissonanza, uno sbalzo d’umore, un perturbamento, alla cui resa contribuisce un uso innaturale del colore, una luce di gusto fotografico, e anche qualche espediente tecnico come l’uso del reticolo grafico, figlio della Pop Art, ma anche del superbo Primo Carnera di Balla, che scompone la pellicola pittorica fino a darle un effetto di mosso.
Anche quando la figurazione non è suggerita dalla cultura, ma dalla natura, la riproduzione del reale, prevalentemente e volutamente infedele, non pare mai assumere un’importanza cardinale, come se alla fine tutto ciò che si alterna sulla superficie fosse un pretesto per generare sempre nuove forme, pronte a impregnarsi degli umori e delle sensazioni che provengono dalla vita quotidiana (temi assoluti come la vita e la morte, ma anche atmosfere più intime e raccolte, o piccoli eventi di cronaca).
Eppure, dalla produzione della D’Alpaos emerge una chiara, comune aspirazione al bello, non certo coincidente con quello apollineo del mondo classico, ma elasticamente proiettato in avanti, come tensione verso tutto ciò che può risultare sensuale e seduttivo.
Con la donna, inquieta, ma finalmente soggetto, a giocare un ruolo decisivo in questa proiezione, anche quando viene colta nella contraddittorietà della sua attuale condizione.
Vittorio Sgarbi