Biografia

Resistere all’impulso pubblicitario che sottostà alla performance da reality show, cui la mutevolissima era tecnologica contemporanea costringe spettatore e artista, significa penetrare la Storia dell’Arte con occhio vergine, dimenticando tutto o imparando tutto da soli, fuori dalla codifica normativa di chi ha prevalso.
Significa rinunciare alle mediazioni per colpire i punti nevralgici dell’intelligenza e del sentimento con scariche di poesia diretta.
Matteo Quinto serializza il nucleo famigliare restituendo a ciascun elemento la sua tragica individualità, distinguendone le diversità nell’indicarne i tratti comuni.
Ritrae sistematicamente piccoli uomini, simili tra loro, che vorrebbero avere una personalità autonoma. Concettualizza una famiglia d’impiccati in un allestimento shock, suggerendo speranza nel mare della disperazione.
Attenta alla tranquillità con overdosi d’ironia e rilassa la tensione dei conflitti con vaste pennellate di solidarietà umana.
Facendo questo, tocca immediatamente l’intelletto e la centrale emotiva senza passare attraverso i secoli di Accademia che l’hanno preceduto.
La spontaneità del gesto autodidatta contrasta il manierismo tecnico. È forse l’unico modo di sottrarsi all’inesorabile entropia della cultura contemporanea, che è ripetizione del presunto nuovo verso un nulla certo.
Così, senza pretese di engagement alla moda, l’opera autoironica di Matteo Quinto critica con pacata automaticità un ambito sociale cresciuto a bolle finanziarie e crimini domestici.
L’autenticità è riscattata nella nudità di un’arte che ignora intenzionalmente i propri precursori, infischiandosene delle coincidenze col passato, fortuite o volute, preterintenzionali o consapevoli, a favore di una comprensione acuta, subitanea, talvolta sorridente, sempre sconvolgente.

(Marco Ongaro)