Biografia

Ogni tipo di consesso sociale ha le sue regole, i propri rituali e la propria liturgia. Queste regole non sono mai scritte, ma implicano una obbedienza rigorosa ai misteri ai quali ci introducono. Un mondano personaggio di Proust era famoso per non avere la minima indecisione su quando scegliere un pigiama o uno smoking, entrambi rigorosamente indossabili solo di sera. Tale sicurezza, oggi non ci appare più così invidiabile, confortati dal superamento dei problemi relativi all'abbigliamento che ci consentono una tenuta polivalente modificata solamente da piccoli accessori. Eppure per accedere ai cosiddetti templi dell'arte contemporanea, sarà necessario non sottovalutare la questione. La tinta unita, sui toni dei grigi scuri convenientemente castigati, con capi dove la stiratura dovrà essere in bilico fra il modesto decoro e il gualcito rassegnato, è d'obbligo, così come l'avvenenza fisica e il rimando ad una ingombrante classe sociale “benestante” dovranno essere tenute sotto controllo. Nelle donne è sconsigliato qualsiasi trucco, anche il più lieve e saranno tollerati i monili o gioielli che dir si voglia solo se realizzati da artisti, in pezzi unici con una fusione a cera persa. In questo senso Peggy Guggenheim, sia per la bellezza poco appariscente sia per le sculture indossabili di Calder, rimane un modello insuperato. L'uomo, invece, potrà camuffare il suo accondiscendente stupore indossando degli occhiali senza lenti. Tuttavia, questa rimane, pur con le sue insidie nascoste, la parte più trascurabile. Il vero problema resta circoscritto al portamento che deve tendere ad una complessa inedia calcolata. Il rischio che ci si possa sentire, in una galleria, come un cane in chiesa (cattolica) rimane altissimo ed è proprio nella partecipazione ad una messa che si crea un parallelo comportamentale con le probabili performance alle quali potremmo essere chiamati in entrambi i luoghi. Il momento dello scambio di un segno di pace (così simile ad una azione di Marina Abramovic) come quello della questua, nel quale siamo chiamati ad un freudiano dono coatto, esige l'eleganza del cameriere di ristorante di lusso che similmente ad un compassato aristocratico, distoglie lo sguardo figurando l'inesistenza degli astanti. La placida sicurezza di chi inibisca la quasi totalità delle funzioni corporee e ne riduca la sensorialità ad uno stato paravegetativo rimanda ad un nuovo uso del corpo dove l'azione sia sospesa ma non negata. I cinque sensi rimangono in uno stato di inerte potenzialità, simile a quello di un ballerino di fronte ad una difficile coreografia che deve restituire col solo movimento una serie di astratti stati d'animo. La letteratura ancora ci istruisce su un possibile uso “minceur” della nostra fisicità quando agiamo nelle atmosfere modificate (rarefatte come quelle indicate sulle etichette di molti prodotti alimentari) delle gallerie e dei musei votati al contemporaneo. Vittorio Alfieri, facendosi legare per non avere distrazioni dallo studio e contemporaneamente pronunciando la frase : “volli fortissimamente volli” ci pone di fronte ad una prima eclatante manifestazione di riduzione del movimento. L'annullamento della volontà di agire, ottenuta ricorrendo al bondage, pratica mutuata dalla pornografia e usata oggi dagli artisti come metafora di impossibilità, apre delle vie comuni sia agli spettatori degli eventi artistici sia agli artisti stessi. Inoltre l'Alfieri nella stessa situazione si era fatto rasare la metà del cranio per non avere la tentazione comunque ad uscire di casa, apparendoci come un antesignano dell'arte concettuale, anticipando perfino Duchamp che compare con una rasatura a forma di stella sulla testa, nello scatto “Tonsura” di Man Ray del 1919. Un altro esempio dove la fisiologia del corpo viene sospesa è nel racconto di Borges “Il miracolo segreto”, in cui il protagonista, condannato a morte, chiede a Dio un anno per finire la sua opera. Questo gli viene concesso e tra il momento della scarica dei fucili e il tragitto delle pallottole, si crea un vuoto di tempo condensato della stessa durata. In questo scarto dato dalle due differenti scansioni temporali, Jaromir Hladik vive sospeso tra due mondi, con la percezione fisica ridotta al solo funzionamento della mente e il corpo disincarnato di un fantasma.

Quello che mi interessa, oltre all'evidente riflessione sulla relatività del tempo e alle possibilità inesauribili della memoria, è l'esistenza possibile di un corpo vivente separato dalla sua anima.

Ora, nella snobistica negazione di riconoscimento di ruolo da parte della “famiglia dell'arte” nei confronti di chi non ne fa parte, rivive il concetto di affiliazione per generi simili e di setta segreta, i cui uffici si svolgono nei pubblici spazi delle gallerie e dei musei, anche se non tutti capiscono cosa lì si stia svolgendo. Dunque non sono i cappucci o le squadre o le parole in codice delle spie ad aprire le porte delle cerimonie nascoste, sebbene praticate sotto gli occhi di tutti, ma la funzionalità al cosiddetto “sistema dell'arte”, non la semplice vita naturale, ma un modo particolare di vita, dove una passione dominante indirizza tutti i desideri e i bisogni. La necessità di riduzione, di assottigliamento sin quasi alla scomparsa, è avvertita dagli autentici adepti di questa anomala congrega come segno di riconoscimento e di condivisa partecipazione. Identifico in questo filone particolare, definibile col termine di riduzionismo, fra le molte tendenze dell'arte di ricerca e sperimentazione, una concettuale modalità rappresentativa che, unendo le varie forze partecipative nelle loro disparate competenze, si fa motore di una possibile realtà prossima futura. Uno scenario senza massa, senza spettatori, senza punti di fuga, come fatale risposta all'intollerabile peso demografico a cui viene sottoposto il pianeta. Già adesso le gallerie ed i musei sono degli enormi acquari da dove lo spettatore è escluso e si muove insignificante ed insignificato ai margini di quelle vaste stanze, simili a piazze urbane (quelle vere ormai spodestate delle loro antiche funzioni) dove i lavori d'arte sono collocati/allestiti alla maniera di monumenti a sottolineare una grandezza di intenti alla quale il singolo cittadino/spettatore si è per primo sottratto, preso com'è dal suo computer, il suo ipod, la sua palestra, le sue medicine che lo rendono, purtroppo, immortale, la sua perenne TV sempre accesa, le sue merendine perpetue e il suo inutile comprare solo inutili oggetti.

Guido Morselli tanti anni fa (1973), con intuito profetico scrisse “Dissipatio H.G.” (dove H.G. sta per humanis generis) in cui ipotizza lo scenario di una evaporazione collettiva che rende il protagonista unico spettatore del mondo, in attesa che l'energia che ancora consente alle onnipresenti macchine il loro ossessivo funzionamento si esaurisca, mentre gli animali, felici, si riappropriano di quanto era sempre stato loro.

Arte e letteratura si intrecciano continuamente, Adolfo Bioy Casares nel 1940 scrive “L'invenzione di Morel ” dove un proiettore tridimensionale, azionato dalla forza delle maree, reitera per l'eternità uno spezzone di vita reale in un'isola rimasta deserta. L'Abramovic, in un manicomio abbandonato, fa muovere gli spettatori della sua azione su delle lastre di ferro, dopo avergli fatto indossare delle scarpe dalla suola metallica magnetizzata, che ne riducono la possibilità di movimento, rendendoli nell'andatura simili agli antichi ricoverati. Beuys nella performance “Come spiegare la pittura a una lepre morta ”, alla quale gli spettatori potevano assistere da una porta socchiusa, dimostra come una lepre morta sia in grado di capire molto meglio della “gente” i concetti astratti (“Spiegavo a lei perché non mi piace affatto doverli spiegare alla gente… una lepre capisce molto più di tanti esseri umani, con il loro stupido razionalismo.. le ho detto che doveva solo dare una rapida occhiata a un’immagine per capirne l’importanza” Josep Beuys). L'artista in quella occasione si era spalmato il volto di gesso, teatrale maschera di un trapasso imminente o forse già avvenuto e si era appesantito un piede, legandosi alla scarpa delle lastre di piombo, ancora il segno forte dell'inoperosità.

Certo mi rendo conto che queste “istruzioni per l'uso” necessiterebbero a loro volta di altre istruzioni affinché un neofita non ritenga indispensabile partecipare ad un vernissage, composto in una teca di vetro come la “non morta” Biancaneve, accompagnato da quattro arcifratelli della Misericordia o del Ku Klux Klan, ma è evidente che l'arte, come il motto di spirito, o la si capisce nel lampo nella quale la si osserva o non la si può spiegare, e la “gente” bisogna che comprenda - e quindi perdoni quei galleristi nel cui spazio entra avanza tempo o per mangiare duecento tartine - se non viene immediatamente trattata come Rockefeller. Ancora sia indulgente se gli addetti ai lavori non rispondano, solerti, ai commenti e agli interrogativi che tradiscono, drammaticamente la vasta sottocultura massificata nella quale tutti ci dibattiamo, nelle opposte vesti di attori e vittime, che rappresenta il frutto ammaccato di un estorto e sovvertito egualitarismo, nel quale il peggiore è uguale al migliore.